1955, 111min
Di Nicholas Ray
Con James Dean, Natalie Wood, Sal Mineo
Recensione di Cristiano Lo Presti
Spoilerometro

Gioventù Bruciata è un film del 1955, ed è la pellicola che ha consegnato al mito la figura di James Dean, morto in un incidente stradale poco meno di un mese prima dell’uscita del lungometraggio nelle sale americane.
Il tema principale è l’incomunicabilità tra adulti e adolescenti. In tal senso è esemplare il titolo originale Rebel without a cause, letteralmente “Ribelle senza causa”, come a voler sottolineare l’incapacità da parte dei genitori di comprendere le ragioni dietro le azioni dei propri figli, risultando queste immotivate e inspiegabili ai loro occhi.
Il nostro primo incontro con i tre protagonisti, che coincide con il loro primo incontro, avviene in una stazione di polizia, all’inizio del film, in una scena scritta magistralmente in cui i tre vengono presentati delineandone il senso di spaesamento e la mancanza di punti di riferimento.

Jim è un ragazzo problematico ma fondamentalmente buono, e presto scopriamo che il suo animo tormentato in passato lo ha già portato a mettersi nei guai, cosa che ha spinto ogni volta la sua famiglia, profondamente borghese e più preoccupata dalle malelingue che dal comprendere le motivazioni del figlio, a trasferirsi. Suo padre è un brav’uomo, ma Jim soffre il suo essere poco autoritario e lasciarsi dominare dalla moglie.
Judy è una ragazza perennemente alla ricerca di attenzioni e approvazione altrui (in particolar modo del padre, severo e anaffettivo), ragion per cui ci appare con poca personalità, purtroppo. Plato, colpito dalla gentilezza di Jim, inizia sin da subito ad idealizzarlo e a ricercare la sua amicizia, vedendo in lui la figura paterna di cui ha bisogno, essendo stato abbandonato dal padre in tenera età.

Se nel fornire questo ritratto della società giovanile americana gli adulti appaiono quasi completamente inadeguati (l’unico personaggio che sembra in grado di comprendere, empatizzare e dialogare con i ragazzi è l’agente di polizia Ray Fremick), il ruolo di antagonisti puri del film è affidato ai bulli della scuola, soluzione che probabilmente oggi può apparire scontata, ma che se contestualizzata può offrire uno spaccato più preciso del mondo giovanile di quegli anni.
L’interpretazione del fenomeno del bullismo da parte del regista è quello che mi porta maggiormente a riflettere. Da un lato Nicholas Ray sembra dare un giudizio molto duro nei loro confronti, non approfondendone gli aspetti psicologici né mostrando alcun reale conflitto interiore, come se la figura del bullo fosse una figura vuota, sottolineato da un passaggio in cui Buzz, il capo banda, ammette che il suo scopo è banalmente «vincere la monotonia», mostrandoci tutta la sterilità della sua ribellione, d’altro canto però è proprio in questo passaggio fugace che rivela la natura quasi innocente del personaggio.
Buzz non è davvero un cattivo ragazzo, piuttosto un ragazzo annoiato incastrato in un ruolo. Un passaggio fugace che mi fa guardare al personaggio quasi con tenerezza. Forse Buzz, e per estensione il resto dei bulli al suo seguito, è solo un ragazzo che non trova delle alternative, che se fornite impiegherebbe diversamente il proprio tempo e le proprie energie. E per un attimo, in questo brevissimo dialogo tra lui e Jim, ci illudiamo che possa essere così. Tuttavia Ray decide di punirlo, forse perché, al pari della società perbenista e borghese, incapace di vedere oltre la superficie.
Al netto di tutte le ovvie differenze tra la società degli anni ’50 e quella contemporanea, da notare come le insicurezze, il senso di smarrimento e il bisogno di inclusione siano rimasti invariati, fattore che rende ancora naturale immedesimarsi nei personaggi, mantenendone l’impianto emotivo ancora attuale.
Voto: 4/5
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