1993, 139min.
di Martin Scorsese
con Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer, Winona Ryder
Recensione di Giovanni Comazzetto
Spoilerometro:

Celebre per alcuni magnifici affreschi cinematografici di mondi brutali e irredimibili (Quei bravi ragazzi, The Departed, il recente The Irishman, solo per citarne alcuni), con L’età dell’innocenza Scorsese si cimenta nella trasposizione di un romanzo che racconta un triangolo amoroso nell’alta società newyorkese di fine Ottocento. Uscito nel 1920, L’età dell’innocenza è il romanzo più noto di Edith Wharton, e restituisce con plastica eleganza l’immagine di un’aristocrazia fatua e retrograda, popolata di figure evanescenti – uomini indolenti e superficiali, donne destinate a ruoli puramente ornamentali – ed accerchiata da un’altra “aristocrazia” dai tratti invero non meno inquietanti, quella classe imprenditoriale e bancaria destinata a soppiantare la prima al volgere del secolo.

In quello che si potrebbe definire come un Bildungsroman al rovescio, è descritta la vicenda di Newland Archer, giovane avvocato membro di una famiglia dell’alta società e promesso sposo a May Welland, pure lei appartenente a una ricca famiglia di New York. La stabilità della relazione (e delle convinzioni di Archer) è presto travolta dall’arrivo di Ellen Olenska, cugina di May, in fuga da un marito fedifrago e brutale. Archer si innamora, ricambiato, della contessa Olenska; ma le regole inflessibili dell’alta società cui entrambi appartengono ostano sia al divorzio di lei (che, vittima di un matrimonio infelice, diviene comunque una “reietta” agli occhi dell’aristocrazia cittadina), sia alla rottura del fidanzamento da parte di lui. Il tormentato Archer – dalle idee progressiste e anticonvenzionali, ma incapace di allontanarsi dall’ambiente tradizionalista e oppressivo cui nondimeno sente di appartenere – si trova così condannato ad un matrimonio senza amore, e più in generale ad essere – per citare il celebre prologo di The Departed – un «prodotto» del suo ambiente.

Che cosa fa di questo caleidoscopio di fiori, costumi e arredi sovrabbondanti forse il film più violento di Scorsese? Quella che si vede sullo schermo è una forma di violenza sottile ma nondimeno terrificante, quella di una classe sociale nella quale l’eleganza dei modi, degli abiti e degli arredamenti si coniuga con tradizioni e pratiche che annichiliscono ogni individualità e ogni desiderio di autenticità nei rapporti umani. La vicenda di Archer – magnificamente interpretato da Daniel Day-Lewis – è segnata da una doppia sconfitta: il suo amore per Ellen Olenska (la cui figura dolente è perfettamente impersonata da Michelle Pfeiffer) è destinato a rimanere irrealizzato, e le sue convinzioni progressiste, perlopiù inespresse, finiscono per sbiadire in un grigio conformismo. La tragicità della sua parabola è peraltro connessa alla sua sostanziale irresolutezza: in due momenti chiave del film, quando egli sembra molto vicino a lasciare l’ingenua e superficiale May Welland per l’amata contessa Olenska, eventi in qualche modo “esterni” finiscono per sollevarlo dalla responsabilità di una decisione che avrebbe ripercussioni enormi sul suo status, destinandolo ad un futuro ignoto e lontano da quell’ambiente nel quale invece finirà per integrarsi perfettamente.

La splendida scena finale, che vede Archer, anziano e vedovo, rinunciare alla possibilità di rivedere la contessa Olenska a distanza di molti anni dall’ultimo incontro, segna la definitiva sublimazione del sogno d’amore che l’ha accompagnato per tutta la vita (lei era diventata «la visione completa di tutto ciò che aveva perduto»), e certifica al contempo la sconfitta del suo desiderio giovanile di emancipazione da un contesto ritenuto ottuso e soffocante. Ad Archer non resta che rifugiarsi nella fantasia consolatoria di aver condiviso con la moglie May il segreto della propria passione insoddisfatta, e di aver sacrificato la propria felicità alla salvezza della propria famiglia.
Voto: 4.5/5
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