1919, 89 min.
di Carl Theodor Dreyer
con Halvard Hoff, Olga Raphael-Linden, Axel Madsen
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

Scandinavo. Non esiste, forse, aggettivo migliore di quello relativo alla provenienza geografica per condensare l’approccio complessivo al cinema di Carl Theodor Dreyer. Un approccio che è insieme cura maniacale del dettaglio e spazio per l’immaginazione, immersione profonda nel contesto sociale e predilezione per la dimensione etica dell’umano. Un approccio alla messa a punto del quale il regista Danese sembra lavorare già a partire dalla prima pellicola.
Praesidenten, portando sul grande schermo l’omonimo racconto di Karl Emil Franzos (1884) dopo una serie di interventi non indifferenti in sede di sceneggiatura, racconta la storia di un magistrato che si trova a giudicare il caso di una giovane donna accusata di infanticidio. Von Sendlingen, questo il nome del giudice, non appena venuto a conoscenza del caso si rende conto che l’imputata altri non è che la figlia avuta da una relazione clandestina e mai riconosciuta. Si attiva fin dall’inizio il più classico dei cortocircuiti: da un lato vi sono il senso del dovere e il rispetto della legge che il protagonista rappresenta nella comunità di cui fa parte (comunità che, nel frattempo, gli rende un enorme tributo in occasione della sua nomina a præsident, sorta di direttore generale di uno dei distretti legali del paese), dall’altro il senso di colpa nei confronti della ragazza amata in gioventù e abbandonata in nome di una promessa fatta al padre in punto di morte che lo impegnava a non sposare una donna di ceto inferiore.

Il processo si svolge regolarmente ma, nonostante l’avvocato difensore mostri con chiarezza l’innocenza della donna, la giuria si pronuncia per la condanna a morte. Von Sendlingen si trova, dunque, costretto a scegliere a quale legge obbedire. La porzione finale del film mostra chiaramente quale delle due dimensioni prevale nelle decisioni dell’uomo.
Di Præsidenten Dreyer è regista a tutto tondo: cura, infatti, la sceneggiatura intervenendo sul soggetto originario al fine di eliminare gli elementi di critica sociale, ed è autore della scenografia e del montaggio, come si vedrà centrali nella costruzione del racconto. La scenografia scarna, ridotta al minimo, come spesso accade nei film nordeuropei, infatti, non ha solo lo scopo di evidenziare la scarsa cura per gli oggetti visti come proiezione di tutto ciò che non è moralmente di valore, ma è anche utile a mettere in rilievo, attraverso una fotografia che sa dosare alla perfezione i contrasti, i protagonisti della vicenda narrata. Farli entrare direttamente in relazione con lo spazio, questo sembra essere l’impegno, quasi a volerli fare dialogare; la scenografia diventa dunque uno degli attanti del racconto.

Allo stesso modo la selezione del girato e la sua composizione, con i primi accenni di montaggio parallelo (si veda la sequenza magistrale che sancisce il trionfo del protagonista in cui le quattro scene differenti prendono avvio nello stesso momento, corrono parallelamente e apparentemente senza un collegamento immediato, per trovare relazione soltanto nel culmine finale) e l’incredibile lavoro fatto nel salto continuo da un piano temporale a un altro (i flashback si susseguono) si mostrano fondamentali alla costruzione di un racconto la cui profondità non ha bisogno di essere resa da un punto di vista plastico.

In questo dramma di stampo classico ambientato nella Danimarca di fine ‘800 spicca infine, su tutti, l’interpretazione di Raphael-Linden, eroina circondata da un’aurea sacra il cui carico di sofferenza consapevole getta le basi del prototipo di donna dreyeriana che l’autore porterà con sé limandolo di volta in volta fino al capolavoro Gertrud (1964).
Voto: 3.5/5
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