1985, 100min.
di Agnès Varda
con Sandrine Bonnaire, Macha Méril, Stéphane Freiss, Yolande Moreau, Laurence Cortadellas
Recensione di Laura Caviglia
Spoilerometro:

“Perché hai deciso di abbandonare tutto?”
“Meglio la strada e lo champagne”
Campagne francesi, 1980. Il cadavere di una senzatetto viene trovato in un fosso da un bracciante, la polizia definisce le cause della morte come naturali, per freddo. Lo spettatore si ritrova dunque a ripercorrere l’ultimo anno di vita della vagabonda, di nome Mona (Sandrine Bonnaire), attraverso lo sguardo delle persone che la ragazza ha incrociato durante il proprio cammino: un meccanico, la badante di una ricca e anziana ereditiera, una coppia di pastori, una professoressa di botanica, un bracciante arabo e diversi clochard.

L’intero lungometraggio si dipana attraverso la contrapposizione o il parallelismo creatosi dall’accostamento di Mona a questi personaggi, ma nonostante questi incontri cadenzino le giornate della vagabonda, la ragazza sembra versare in una perenne condizione di solitudine e disinteresse, che non viene mai ad essere realmente giustificata nel corso della trama. La sceneggiatura stringe di volta in volta il focus su aspetti peculiari della vita delle persone in cui Mona si imbatte, per farci scoprire che queste restano turbate dal nichilismo della clochard, come se messe a contatto con una fonte di dubbio per le loro esistenze. La personalità di Mona appare di fatto incomprensibile, perché è incomprensibile per la nostra società che qualcuno possa non desiderare niente e non avere alcuno scopo. Questo niente è un forte e fastidiosamente improvviso schiaffo contro la raison d’être delle nostre solide impalcature sociali e forse psichiche, fondate sulla venerazione dello scopo e del raggiungimento dell’obiettivo.
L’incontro probabilmente più significativo all’interno della storia è quello di Mona e del pastore David, laureato in filosofia ma ritiratosi ad una vita campestre con la moglie, una figlia ed un gregge di capre: «Sei forse più libera di me. Meglio per te. Io ho scelto un compromesso, una via di mezzo tra solitudine e libertà. Tu hai scelto la libertà totale. Ma sei totalmente sola. Prima o poi se uno continua si distrugge, secondo me. Corre alla distruzione. Se si vuole vivere bisogna smettere», afferma David. Il pastore offrirà a Mona un lembo di terreno da coltivare e un posto in cui dormire e potersi scaldare. Una umile soluzione da outsider che si discosta dalle più canoniche scelte di autosostentamento percorse dall’uomo contemporaneo, ma che conserva sempre in sé la necessità del persistere nella progettualità quotidiana per il raggiungimento di un fine, e dunque mal si combina con il nulla che la totale libertà della ragazza porta in essere, relegandola di fatto nell’isolamento.

La solitudine di Mona non è una solitudine fisica, dovuta alla precarietà dei rapporti instaurati con le figure di volta in volta incontrate sul suo cammino; si tratta piuttosto di quel tipo di solitudine descritto da Eric Fromm in Fuga dalla Libertà come “solitudine morale”: «Questo essere in rapporto con gli altri non si identifica con il contatto fisico. Un individuo può essere isolato in senso fisico per molti anni, e tuttavia può essere in rapporto con idee, valori o modelli sociali che gli danno un sentimento di comunione e di appartenenza […]. Possiamo chiamare solitudine morale questa mancanza di rapporto con valori, simboli, modelli; e affermare che la solitudine morale è intollerabile quanto la solitudine fisica, o piuttosto che la solitudine fisica diventa intollerabile solo se implica anche la solitudine morale».
Nonostante Mona durante tutto il film mostri orgogliosamente di non risentire dell’isolamento dovuto al suo stile di vita, il film inizia con la sua morte, si conclude con la sua morte e porta a compimento la sua “solitudine morale”, che si distende sugli occhi dello spettatore come una scelta di morte. D’altro canto, la necessità per l’uomo di raccontare a sé stesso di stare portando avanti un qualche progetto che ne definisca l’esistenza altro non è che il tentativo di rifuggire dallo spettro di una carenza di significato che ha a che fare con la morte. Ciò che turba alcuni dei personaggi che incontrano Mona, così come ciò che può provocare il turbamento dello spettatore, è proprio il disinteresse della protagonista nel cercare di dimenarsi per rifuggire dalla carenza di significato.

La regista Agnès Varda con questo film dà magistralmente corpo ad un tema quasi mai affrontato prima, e lo fa senza fornire indicazioni di lettura definitive allo spettatore ma limitandosi a presentare la poetica di personaggi e scene, modellando il tutto sotto forma di indizi sparpagliati in un testo aperto. L’arte dell’allusione, senza che il significato della messa in scena venga a sclerotizzarsi in univoche e scontate interpretazioni, discosta qui la poetica di Varda dal linguaggio della Nouvelle Vague, che aveva impregnato il cinema francese fino a pochi anni prima, valendole il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1985.
Voto: 4/5
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