2013, 107min.
di Terry Gilliam
con Christoph Waltz, Melanie Thierry, David Thewlis
Recensione di Luca La Russa
Spoilerometro:

Attraverso questa pellicola del 2013 il genio visionario Gilliam, nella fase avanzata della sua carriera, costellata da numerose difficoltà dovute a flop commerciali e divergenze con le case di produzione, prova a fornirci una possibile interpretazione della caotica era dell’esasperazione delle iperconnessioni e dei social network, ritornando a quella personalissima versione della fantascienza distopica che aveva caratterizzato alcuni dei suoi lavori migliori.
La visione del film ci fa immergere in una schizofrenica città di un futuro prossimo, piena di schermi e telecamere in ogni angolo atti a intendere che il controllo della popolazione sia normalizzato. In questo scenario orwelliano ci viene presentato Qohen, un bizzarro informatico alle dipendenze di una misteriosa organizzazione che gli affida un’enigmatica missione: scoprire il significato stesso dell’esistenza attraverso elaborazioni complesse di dati e algoritmi con l’ausilio di un programma che assomiglia a un bizzarro videogioco.

Impegnato in questo estenuante compito, il protagonista affronta una terribile crisi d’identità, rinchiuso a lavorare in una ex chiesa fatiscente, nell’attesa di una fantomatica chiamata che, secondo una teoria alimentata da manie e allucinazioni, dovrebbe porre fine a tutti i suoi problemi. Le diverse interazioni con visitatori misteriosi (colleghi ambigui, psichiatri online di dubbia affidabilità, strani fattorini) non aiutano la condizione di disagio generale, fatta eccezione per la sensuale Bainsley che, nonostante sembri una prostituta pagata dalla stessa organizzazione per intrattenere Qohen, instaura con lui un “vero” rapporto, capace forse di risvegliarne la fiducia nelle relazioni umane.

Indubbiamente alla base dell’opera c’è l’intenzione di rappresentare la disintegrazione dell’io nella disumanizzante società della connettività a qualsiasi costo, come viene sottolineato dall’abitudine dell’angosciato Qohen di usare il plurale maiestatis, così come dall’incapacità di diversi personaggi di memorizzare i nomi. Il protagonista sembra letteralmente schiacciato da un terribile meccanismo la cui imponenza sembra essere proporzionale alla generale mancanza di senso, tale da farne un personaggio decisamente kafkiano: sono infatti innegabili i riferimenti al Processo (tuttora la più grandiosa rappresentazione dell’alienazione del cittadino-suddito-impiegato), la cui declinazione wellesiana costituiva già nel capolavoro di Gilliam Brazil un’ influenza decisiva (pensando all’uso di scenografie stranianti e di certe inquadrature vertiginose, volte a esprimere proprio quel senso di piccolezza dei protagonisti rispetto al potere sovrastante).

Risulta in effetti inevitabile, concludendo la visione di The Zero Theorem, soffermarsi sul confronto con la ispiratissima pellicola realizzata trenta anni prima dall’ex Monty Python, così simile nella poetica e nelle tematiche. Il rischio è di provare la sensazione di avere assistito a un poco riuscito tentativo di bissare Brazil aggiornandolo all’era telematica. Seppure ricco di trovate sceniche formidabili (grazie allo stile unico di Gilliam) e di performances attoriali di alto livello, il film manca di quella omogeneità e forza eversiva vista nel predecessore, e forse riflette una certa rassegnazione dell’autore di fronte alla disgregazione definitiva di ciò per cui era urgente combattere un tempo.
Voto: 3/5
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