1932, 83min.
di Carl Theodor Dreyer
con Julian West, Maurice Schultz, Sybille Schmitz
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

Questo è il racconto della strana avventura del giovane Allan Gray, immerso nello studio del culto del diavolo e dei vampiri. La preoccupazione per le credenze dei secoli passati lo aveva reso un sognatore per il quale il confine tra realtà e soprannaturale era sfocato. Una sera tardi, durante uno dei suoi vagabondaggi senza meta, il suo percorso lo condusse alla solitaria locanda di un villaggio in riva al fiume chiamato Courtempierre.
Con questo cartello si apre il primo film sonoro di Dreyer; una descrizione scarna che pone l’accento sull’elemento chiave per la comprensione di quanto lo spettatore osserverà, ossia la natura labile della linea che divide concreto e fantastico.
Arrivato casualmente alla locanda, il giovane protagonista si trova ad affrontare una serie di avventure difficilmente spiegabili con gli strumenti della razionalità. Dopo aver ricevuto la visita di un anziano uomo che lascia un pacchetto con scritto «da aprire dopo la mia morte», Gray (J. West) comincia a vagare per la campagna imbattendosi prima in una casa abbandonata all’interno della quale assiste a scene prossime all’allucinazione, poi in un castello dove ritrova l’anziano uomo e ne conosce la famiglia venendo gradualmente edotto sul dramma che l’avvolge e che ha per protagonista la giovane Léone (S. Schmitz) e la misteriosa Marguerite Chopin (H. Gérard).

Nonostante all’epoca il genere horror, e in particolare il sottogenere vampiresco, avessero già prodotto capolavori capaci di conquistare critica e pubblico – su tutti Nosferatu di F. W. Murnau (1922) e Dracula di T. Browning (1931) – Dreyer identifica questo terreno come quello più fertile per mettere alla prova la propria idea di cinema. Un po’ come Stanley Kubrick con Shining (1980), il regista danese sceglie una modalità espressiva già codificata con l’obiettivo di piegarne i canoni e metterne in discussione i punti di riferimento.
L’oggetto terrorifico non appare mai chiaramente davanti agli occhi dello spettatore, così come l’attenzione non è mantenuta viva da eventi inaspettati capaci di generare l’effetto sorpresa. A determinare la tensione che anima l’intero film è piuttosto il concorso degli elementi inquietanti di ordine visivo e uditivo che in modo omogeneo permeano l’atmosfera in cui si muovono i protagonisti.

Da scettico sostenitore dell’utilità del parlato al cinema, Dreyer sfrutta il sonoro in modo singolare. Mentre i dialoghi sono ridotti a zero (è stato stimato che il complesso delle battute pronunciate non superi gli 8 minuti) il tessuto del racconto è disseminato di rumori naturali, versi misteriosi, cigolii ed altri suoni angoscianti. Allo stesso modo le immagini, pur rendendo in alcuni casi evidente la natura di ciò che vogliono descrivere, non sono orientate ad una rappresentazione oggettiva dei fatti e delle cose; esse vengono costruite per colpire emotivamente lo spettatore alludendo ad una dimensione non immediatamente percepibile come reale.

I riferimenti del regista non sono, allora, da cercare nelle visioni deformanti dell’espressionismo tedesco o nella commerciale produzione horror anglosassone, quanto piuttosto in alcune pieghe velate del surrealismo e nelle atmosfere di autori come Jean Epstein (il paragone con La Caduta della Casa Usher (1928) è calzante per la comprensione di uno sguardo al confine tra realtà e immaginazione).
È questa sperimentazione spregiudicata a determinare, come già era accaduto con La passion de Jeanne d’Arc (1928) un rapporto inversamente proporzionale tra successo di critica e di pubblico. Ma se nel primo caso il sostegno finanziario del giovane barone olandese Nicolas de Gunzburg (protagonista di Vampyr sotto lo pseudonimo di Julian West) aveva rapidamente risollevato Dreyer, nel secondo l’insuccesso al botteghino fermerà il regista per undici anni.
Voto: 4/5
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