2023, 114min.
Di Greta Gerwig
Con Margot Robbie, Ryan Gosling, Will Ferrell
Recensione di Cristiano Lo Presti
Spoilerometro:

Anche se in ritardo, anche noi abbiamo visto Barbie, pellicola che ha tenuto banco per tutta l’estate, diventando sin da subito un successo – peraltro annunciato – di critica e pubblico. Greta Gerwig confeziona un film coloratissimo, divertente (e divertito), squisitamente camp.
Le sequenze ambientate a Barbieland, a mio avviso le più riuscite del film, sono un perfetto mix di commedia e musical, sempre orgogliosamente sopra le righe, capaci di far rivivere l’esperienza di gioco di bambine e bambini facendo fluttuare le bambole per spostarle dalla casa al pavimento, complici delle scenografie e dei costumi che ricreano in maniera maniacale l’universo della bambola più famosa della storia, con piscine piatte la cui acqua è solo un’immagine stampata e case apribili.
Non è casuale che la personalità dei personaggi, se di un’effettiva personalità si può parlare, aderisca completamente allo stereotipo assegnatole dal vero deus ex machina di ogni loro azione: i bambini. Ma lo stereotipo è una gabbia e ben presto comincerà a stare stretto ai nostri protagonisti.
Sta stretto a Ken vivere all’ombra delle Barbie, ma anche successivamente dover essere un macho, tanto quanto alle controparti femminili dover essere un modello, presidente o serva, bianco o nero, ma in entrambi i casi prive di quella complessità che ci rende umani. Dover essere necessariamente un simbolo atto ad ispirare generazioni di bambine, attente quindi ad essere il miglior modello possibile, come se da loro – delle bambole – e dalla rappresentazione della donna che incarnano dovesse dipendere qualcosa di più di un momento di gioco.

Viviamo in un periodo storico in cui il tema della rappresentazione viene vissuto con importanza tale da alzare polveroni se un prodotto è giudicato troppo poco inclusivo o peggio ancora offensivo, atteggiamento che ha portato i prodotti audiovisivi ad un appiattimento diffuso, nel tentativo di risultare il più politically correct per tutti, tramite soluzioni talvolta abbastanza ridicole [1], senza tuttavia quasi mai riuscire ad offrire rappresentazioni non stereotipate, a creare personaggi realmente sfaccettati. Ecco, qui si trova, secondo me, il cuore effettivo del film, di questo vogliono parlarci Grata Gerwig e Noah Baumbach.
Io stesso in un primo momento ho dato una lettura un po’ superficiale dei dialoghi, francamente didascalici e banali, pensando che l’intento fosse quello di strizzare l’occhio alla cultura “woke” e ai suoi slogan di self empowerment, ma riflettendoci penso proprio che il focus della pellicola non sia tanto il femminismo, quanto la critica agli stereotipi: femminili, maschili, negativi e positivi. Una critica – o una presa in giro – alle semplificazioni, e probabilmente – semplificando – non lo avevo capito.
Quella che in un primo momento avevo interpretato come incoerenza altro non è che un farsi gioco di chi pretende una rappresentazione della donna forte e indipendente tout court, stereotipandola tanto quanto la donna oggetto e subordinata all’uomo. Ero pronto a scrivere che Greta Gerwig mancava di aver appreso il vecchio consiglio cinematografico “show, don’t tell”, ma fortunatamente, come sembra volerci dire la regista nel concludere l’arco narrativo di Barbie e di Ken, c’è sempre la possibilità di riflettere, analizzare meglio le cose e se è il caso di scusarci e correggere il tiro. È un percorso più lungo rispetto a indossare uno stereotipo, che sia l’uomo che non deve chiedere mai o la donna che non ha bisogno di uomini, ma è l’unica via sensata.

Ma quindi com’è il film? È il capolavoro che alcuni dicono essere? È un filmetto ridicolo come sostengono alcuni (spesso senza neanche averlo visto)? Né l’una né l’altra cosa. È un buon film, non privo di difetti e incoerenze su cui non ho voluto concentrarmi (è presente una critica al capitalismo piuttosto aspra, ma è pur sempre una mega spot – a cominciare dall’iniziale citazione di 2001: Odissea nello spazio), non rappresentando il cuore del film. Un divertente blockbuster estivo con sprazzi autoriali, una buona regia, scenografie gustose e prove attoriali convincenti (a tratti imperdibili), grazie al loro spirito camp.

Menzione di merito al momento musicale di “I’m just Ken”, che tra citazioni di Grease e la partecipazione di Slash alle chitarre, in un colpo solo mostra un campionario di atteggiamenti machisti, chiaramente uno dei vari bersagli della satira del film, su un testo che riesce anche a raccontare il disagio del co-protagonista.
[1] (si pensi al recente caso del prossimo film di Biancaneve in cui i nani non sono più nani così da non offendere – non si capisce bene come – i nani, con il risultato che parte della comunità degli attori affetti da nanismo se l’è presa, giustamente, perché in questo modo sono venuti meno ben sette ruoli di primo piano per loro).
Voto: 3/5
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