2011, 135 min.
di Lars von Trier
con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Alexander Skarsgård
Recensione di Olga Milazzo
Spoilerometro:

La fine del mondo è uno degli scenari più corteggiati nel cinema: in una pletora di apocalissi catastrofiste, Melancholia si staglia sulle altre con violenta delicatezza in cui lo sguardo dello spettatore scivola sugli avvenimenti come in un viaggio catartico verso il silenzio.
Con lo stesso espediente utilizzato nel suo precedente lungometraggio, Antichrist, Lars von Trier si libera del peso della trama in una sequenza di otto minuti in cui, incalzati dalle note del preludio di Tristano e Isotta di Wagner, lo spettatore viene introdotto nell’atmosfera caratterizzata dal connubio di angoscia e inesorabilità che accompagna l’intero film. Successivamente, e per l’intero avvicendarsi delle scene, si dedicherà a quello che sembra essere il suo principale, se non unico, elemento di interesse: l’analisi introspettiva dei personaggi.

L’opera è divisa in due sezioni: Justine e Claire.
La prima di queste è incentrata sui festeggiamenti che seguono il matrimonio tra Justine (K. Dunst) e Michael (Skarsgård). Nello scorrere del ricevimento incontriamo le figure che ruotano attorno alla storia; mentre quelle maschili vengono descritte soltanto attraverso delle loro azioni, meramente vigliacche e dettate dall’egoismo, il regista concede a quelle femminili il beneficio di un movente psicologico, come a voler sospendere il giudizio nei loro riguardi. Lo spettatore assiste inerme alla metamorfosi di Justine che, archiviata rapidamente l’allegria da novella sposa, svela presto la condizione di estrema depressione in cui versa. Confida alla sorella, che si rivela essere il suo unico supporto, «arranco tra tutti quei fili di lana grigi che mi si attaccano alle gambe, sono così pesanti da trascinare». L’annaspare della donna nel suo delirio depressivo è trasmesso anche da un continuo rimando all’abbandono tra i flutti dell’Ophelia di Millais: così come la fanciulla shakespeariana tra le sponde in fiore, Justine annega in mezzo allo sfarzo della festa. Nel groviglio dei parenti che cercano di nascondere il disagio della sposa, il cognato John, portavoce di una società che non concede debolezze, pretende da Justine che sia felice per ripagarlo delle spese che ha affrontato per vederla sorridere.

La seconda sezione ci proietta invece nell’aristocratica quotidianità di Claire (C. Gainsbourg), che, nonostante il parere contrario del marito John (K. Sutherland), accoglie nella loro famiglia una Justine ormai preda dalla propria depressione. A fare da sfondo al fluire delle loro giornate è l’imminente passaggio del pianeta Melancholia vicino la Terra; l’avvicinarsi del momento in cui è previsto il punto di massima vicinanza rivela, giorno dopo giorno, la vera natura dei personaggi. Al fianco di una Claire, vinta dal terrore che il pianeta possa collidere con la Terra, il pubblico vede Justine rinascere e trovare sicurezza nella luce blu di Melancholia, fino ad ergersi autorevolmente sulla sorella come una moderna Pizia.

Quando Melancholia sorge per l’ultima volta, l’instabilità delle inquadrature sposa quella in cui ormai vivono i personaggi e il regista, attraverso Justine, riprende il giudizio sulla natura che aveva già espresso per bocca di Charlotte Gainsbourg in Antichrist, in cui addita la natura come massima espressione del male e dimora di Satana.
Qui Justine, come oracolo infausto, sostiene che «la Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei» e trova finalmente pace nella certezza che la vita sulla Terra finirà presto.
Voto: 4.5/5
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