2018, 155min.
di Lars Von Trier
con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman
Recensione di Luca La Russa
Spoilerometro:

L’ultimo lungometraggio scritto e diretto dal più volte discusso Von Trier ci racconta della sanguinosa storia del sadico killer Jack, interpretato da Matt Dillon, il quale regala al pubblico una performance difficilmente dimenticabile, calato convintamente nel controverso ruolo di un nevrotico architetto mancato che ripetutamente, commette orribili atrocità rivolte contro vittime innocenti. Questi crimini ci vengono mostrati in episodi chiamati “incidenti” dal protagonista, che, inoltre, interviene esternamente agli eventi come voce narrante, fornendo i raccordi e le cesure tra i macabri capitoli. Scopriamo in seguito però che i suddetti interventi apparentemente di raccordo non si risolvono in un classico monologo “off”: viene infatti rivelato che si tratta di un denso dialogo tra Jack e Virgil, personaggio interpretato dal grande Ganz, scomparso poco prima dell’uscita del film. Proprio grazie a questo suggestivo confronto tra i due riusciamo a comprendere meglio le intenzioni del carnefice(nonché, vedremo poi meglio, dell’autore), il quale, arrivato alla conclusione della sua “carriera” da assassino seriale, tenta di difendere il suo operato di fronte a Virgil (figura ispirata dichiaratamente al Virgilio della Commedia dantesca): Jack sostiene infatti di perseguire una sorta di ideale di bellezza, considerando ogni delitto un’opera d’arte e di conseguenza se stesso un creativo che, omicidio dopo omicidio, cerca sempre di affinare il proprio stile, cercando di produrre finalmente il suo capolavoro proprio come un artista prolifico, accumulando nel frattempo agghiaccianti trofei ricavati da ogni impresa.

Detto ciò è abbastanza inevitabile una analisi del film nel segno della coscienza di una forte componente autoreferenziale: non si può non vedere Jack come un valido alter-ego di Von Trier. Quest’ultimo sembra appunto rivendicare la dignità delle sue opere, rivolgendosi ai detrattori che comunemente lo accusano di proporre materiale volutamente difficile o angosciante o, sempre più spesso in relazione ai film più recenti, di cercare la provocazione fine a se stessa. Proprio a proposito di questo aspetto, il regista danese pare volerci spudoratamente mettere davanti agli occhi, attraverso le gesta del protagonista, dei veri e propri possibili “clichè” dell’ inaccettabile (ultraviolenza su donne, bambini e addirittura inermi animaletti!) ed è anche da notare come uno degli “incidenti”, incentrato su un grottesco scontro tra Jack e una sua possibile partner, sembri una specie di ironica reazione dell’autore all’ossessione di un certo ambiente (cinematografico ma non solo) per la ricerca del ”politically correct”.

Dunque sì, autolegittimazione da parte di Jack-Lars, ma non manca nemmeno una apparente autocritica: il regista, stavolta usando le parole di Virgil (il cui ruolo è proprio evidenziare le contraddizioni del killer), sembra continuamente mettersi in discussione, come è evidente nel punto in cui viene chiesto al protagonista cosa vorrebbe dimostrare mettendo in mezzo i bambini, ad esempio. In ogni caso emerge da tale lettura la questione antica dell’autonomia dell’arte dalla morale comune, sicuramente cara all’autore, il quale ci offre uno spettacolo teso (con un grande Dillon in mezzo ai notevoli virtuosismi della camera), a mio avviso guastato da un finale eccessivamente didascalico.
Voto: 4/5
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