1915, 45min.
di Nino Oxilia
con Lyda Borelli, Ugo Bazzini, Andrea Habay, Giovanni Cini
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro

L’anziana contessa Alba d’Oltrevita si aggira affranta per le stanze della sua immensa dimora durante una festa. Ciò che la tormenta, nell’essere circondata da uomini e donne di ogni età, è
l’aver perso la propria giovinezza e con essa la bellezza, la vitalità, la gioia. Uditene le parole, Mefisto in persona salta fuori da un quadro raffigurante una scena del Faust e propone alla contessa un patto: il ritorno alla giovinezza in cambio della rinuncia totale all’amore.
È da questa premessa (presentata in forma di “prologo”) largamente debitrice al mito goethiano che prende avvio il racconto in due atti di Rapsodia satanica, penultimo film da regista di Nino Oxilia.
Alba accetta la proposta e torna magicamente ai suoi vent’anni, rivivendone la spensieratezza e l’atmosfera da perenne primavera. Il suo percorso si incrocia, però, con quello di due fratelli: Sergio, perdutamente innamorato di lei, e Tristano, che pur non indifferente al suo fascino non vuole interferire con i sentimenti del fratello. Ne scaturisce una vicenda tormentata che porterà al suicidio del primo e, infine, alla morte dell’inconsolabile protagonista, vittima dei suoi stessi desideri e dell’impossibilità di amare.

Se c’è una cosa che Rapsodia satanica testimonia in modo evidente è l’assoluta particolarità del cinema italiano delle origini, punto di incontro - come soltanto raramente accadrà in momenti successivi - di intuizioni e personalità artistiche di natura differente. L’epoca è quella del “diva-film”, ossia di una produzione in cui più delle trame o delle specificità tecniche a contare sono soprattutto le interpreti femminili, vere e proprie divinità laiche, capaci di dominare i rapporti di forza all’interno dell’industria cinematografica, di orientarne il mercato e di definire un nuovo paradigma estetico.
La diva attorno a cui ruota questo film è Lyda Borelli, ventottenne ligure alla decima interpretazione di una carriera che, interrotta all’apice del successo, conterà solamente quattordici titoli, tutti realizzati tra il 1913 e il 1918. Co-detentrice dello scettro di regina del cinema muto italiano insieme alle sole Pina Menichelli e Francesca Bertini, e come le sue colleghe fortemente influenzata dalla recitazione teatrale, Borelli è qui protagonista di un’interpretazione fondata dall’esasperazione di ogni movimento, di ogni sguardo come strumento per la resa dei sentimenti drammatici che scuotono Alba d’Oltrevita.
In un momento in cui, dal punto di vista della tecnica di costruzione dell’inquadratura, il piano americano non ha ancora scalfito la figura intera, Borelli è capace di occupare la scena in modo totalizzante. La circoscrive, la descrive e la attraversa in ogni senso fino a rendere necessario un avvicinamento della macchina da presa e una rappresentazione più ravvicinata della propria figura per mezzo del cosiddetto “effetto primo piano”, antenato dei primi piani a cui siamo oggi ampiamente abituati.

Dietro quella macchina da presa c’è Oxilia, giornalista e poeta che morirà poco dopo l’uscita del film, nella prima guerra mondiale, colpito da una granata nel corso delle operazioni italiane in difesa del Monte Grappa. Abituato al lavoro con le dive (suo è il capolavoro del 1914 Sangue bleu che ha per protagonista Francesca Bertini), il regista dipinge un’atmosfera profondamente in sintonia con la moda dannunziana di metà anni ’10 come dimostra la curata alternanza tra scene in interno ed esterne, il parallelismo tra la natura fiorente del parco che circonda la villa e gli arredi liberty che ne riempiono le stanze. L’atmosfera decadente che porta la protagonista a sacrificare la propria anima è resa attraverso movimenti di macchina lenti e a volte impercettibili, ma capaci di assecondarne l’evoluzione.
A completare, però, il quadro dell’opera definendo i tratti di un lavoro assolutamente straordinario, intervengono due ulteriori elementi. Primo tra essi è il colore. Rapsodia satanica è infatti, per quanto lo consentano le tecnologie dell’epoca, un film a colori; è soprattutto il primo film in cui appaiano combinate le due tecniche di colorazione conosciute dal cinema muto: l’imbibizione (colorazione dell’intero fotogramma) e il pochoir (colorazione manuale applicata su singoli dettagli). Il prodotto è una pellicola i cui elementi di realtà emergono clamorosamente stupendo lo spettatore.

Ultimo elemento, ma non per importanza, la partitura composta da Pietro Mascagni. Contrariamente alla quasi totalità dei titoli del periodo, il film di Oxilia conserva tutt’ora la propria colonna sonora originale grazie al ritrovamento degli spartiti con relative annotazioni apposte dal compositore livornese. Un lavoro la cui «penetrante complessità» è stata definita «sbalorditiva» da Timothy Brock, chiamato a dirigere l’orchestra in occasione del restauro effettuato dalla Cineteca di Bologna nel 2015, e che delimita il perimetro di un’opera d’arte in cui teatro, letteratura e musica concorrono in misura uguale a determinare il successo.
Voto: 4/5
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