1919, 98min.
di Augusto Genina
con Vittorio Rossi Pianelli, Italia Almirante Manzini, Ettore Piergiovanni
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

Nello schematico sistema di generi su cui si struttura il cinema italiano degli anni ’10 la commedia, di fatto, non esiste. Pubblico e case di produzione, inseriti in un meccanismo in cui è difficile comprendere chi dei due determini effettivamente le scelte dell’altro, tendono infatti a prediligere i grandi drammi di ambientazione storica o borghese; ed è dunque a titoli come Quo vadis?, Gli ultimi giorni di Pompei, Sangue bleu o Ma l’amor mio non muore! che si pensa immediatamente ogni qual volta si menziona quel periodo della nostra storia cinematografica.

Tratto dall’omonimo testo teatrale di Luigi Chiarini, che all’epoca spopolava sui palchi di tutta Italia, il film di Genina rappresenta una sostanziale smentita alla precedente affermazione. Gli elementi della commedia sono tutti presenti nella vicenda raccontata: un uomo, parlando per ipotesi davanti agli amici, si proclama capace di usare il pugno duro con la moglie qualora la scoprisse fedifraga, ma dopo essersi trovato davvero di fronte al tradimento, tentenna, stenta ad adottare le misure forti che poco prima riteneva necessarie. È così che, mentre intima alla donna di sparire per sempre, racconta a tutti di averla uccisa per difendere il proprio onore. Portato in tribunale e lì difeso dall’avvocato con cui la moglie si prendeva gioco di lui, viene assolto e festeggiato dagli amici concordi nel definirlo un grand’uomo. Sul finale, però, la donna creduta morta riappare e dopo una breve serie di equivoci ritrova l’amore del marito in un contraddittorio happy ending.

La semplicità dell’intreccio simil-pirandelliano non deve far pensare ad un prodotto banale. Nonostante, infatti, il cinema italiano dell’epoca non sia terreno di sperimentazioni artistiche come parallelamente accade in Francia, Germania o Unione Sovietica, è possibile identificare traiettorie autoriali di primo piano. Augusto Genina costruisce un film capace di gestire gli strumenti a disposizione in modo originale: la profondità di campo da necessità tecnica diventa scelta artistica e gli spazi vengono gestiti in modo nuovo grazie a movimenti morbidi della macchina da presa, i cartelli inizialmente più frequenti vanno via via diminuendo in misura inversamente proporzionale al complicarsi della storia e così le scene brevi, che quasi sembrano dichiarare la volontà di usare segni d’interpunzione in fase di montaggio, si dilatano frammentandosi in carrellate e singole inquadrature che compongono quadri più ampi (come nel caso della sezione ambientata in tribunale).

Tornato in sala grazie al lavoro di restauro effettuato nel 2018 dalla Cineteca di Bologna e dal Museo nazionale del cinema di Torino a partire da una copia messicana superstite, La maschera e il volto mostra anche un uso intelligente della fotografia: basti pensare alla dialettica che attraversa la sequenza finale tra la luminosità ricca di contrasti del funerale dell’ipotetica vittima dell’omicidio e i toni scuri e sfumati della camera in cui marito e moglie ritrovano l’amore. Completano il quadro le interpretazioni che vedono brillare – una volta tanto, è il caso di dire, per l’epoca del “diva-film” – i personaggi maschili e il lavoro di “riduzione” e contenimento scenico effettuato sull’affascinante Almirante Manzini.
Voto: 3.5/5
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