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Dieci film che nel 2025 compiono un secolo

di Mauro Azzolini


Il mondo del cinema è sempre più legato al passato. Tanto da un punto di vista narrativo, per la scelta frequente di ambientare in un passato più o meno prossimo meccanismi narrativi che altrimenti potrebbero essere messi in discussione dalla modernità e dal suo sviluppo tecnologico, quanto da un punto di vista commerciale, perché non solo gran parte dell’industria vive con lo sguardo rivolto all’indietro per provare a sfruttare in ogni modo le possibilità offerte dai film di successo (sequel, prequel, spin off, ecc.), ma è sempre più frequente imbattersi nella distribuzione di film di successo che per qualche ragione tornano in sala. Questa ragione è spesso legata ad un anniversario; il più delle volte quello dell’uscita nelle sale, altrimenti date importanti connesse alla biografia di autori e interpreti. 


Ecco, con queste premesse, si sceglie qui di inserirsi in questo filone in qualche modo “commemorativo” non, però, per giustificarne le premesse, quanto piuttosto per sfruttare la familiarità che il pubblico ha ormai acquisito con questo meccanismo per riproporre all’attenzione una serie di pellicole che, proprio quest’anno, raggiungono il secolo di vita. 


Questo è il breve elenco che ne è scaturito. Al suo interno titoli più o meno conosciuti, più o meno originali, tutti usciti nel 1925 e tutti accomunati dalla capacità di testimoniare un’epoca in cui il cinema era ancora terreno di sperimentazione vera, con un linguaggio in via di definizione e una voglia incredibile da parte di chi faceva film di incuriosire gli spettatori.


1) La corazzata Potëmkin (Bronenosets Potyomkin, di Sergej M. Ėjzenštejn)


L’ammutinamento dell’equipaggio di una nave da guerra e le proteste nella città di Odessa: Ejzenstejn sceglie un episodio periferico per raccontare la rivoluzione fallita del 1905. Lui, però, nel frattempo la rivoluzione l’ha fatta per davvero sia come combattente, nell’Armata Rossa di Lenin che ha conquistato il potere nel 1917, sia come artista, irrompendo pochi mesi prima sulla scena cinematografica con un capolavoro come Sciopero! capace di sovvertire le regole fino ad allora conosciute. Anche qui è il “montaggio delle attrazioni” a farla da padrone. Attraverso la combinazione delle sequenze il regista riesce ad attribuire nuovo senso alle immagini e a coinvolgere lo spettatore in un crescendo di emozioni che culmina nella celeberrima scena del massacro sulla scalinata della città russa. Parodiato e citato a più riprese, a distanza di tempo è ancora giustamente considerato uno dei pilastri della cinematografia novecentesca.





2) Tartufo (Herr Tartüff, di Friedrich Wilhelm Murnau) 


Penultimo film tedesco di Murnau, che dall’anno successivo si trasferirà a Hollywood per non fare più ritorno. Rappresentando una tra le primissime attestazioni di “cinema nel cinema”, costituisce anche un atto di fede nei confronti della settima arte, poiché consegna ad essa il ruolo di strumento utile alla scoperta della verità. Le vicende del Tartufo di Molière sono, infatti, mostrate all’interno di un film proiettato per far comprendere ad un anziano signore che la governante sta tentando di approfittarsi di lui per accaparrarsene l’eredità. Simmetria, giochi di ombre, primi piani: tutto concorre a determinare la psicologia dei personaggi, perché è su di essi che deve concentrarsi l’attenzione di uno spettatore che a volte viene direttamente chiamato in causa, per sottolineare l’intento pedagogico. Musiche originali dell’italiano Giuseppe Becce.





3) L’angelo del focolare (Du skal ære din hustru, di Carl Theodor Dreyer) 


Un uomo che vive un periodo di difficoltà economiche sfoga le frustrazioni della vita maltrattando la moglie. Quando lei, sfinita, sceglie di andare via, l’uomo si ritrova a vivere sotto il controllo di una governante anziana e severa che riesce a fargli comprendere i suoi errori. Tratto da una modesta opera teatrale e ritenuto a lungo uno dei prodotti minori di Dreyer, questo film non solo rappresenta uno dei più alti momenti di critica sociale (antipatriarcale, antiborghese, anticapitalista) del regista danese, ma anticipa alcune delle soluzioni narrative che caratterizzano il suo cinema. I tempi dilatati, il ritmo lento, i movimenti quasi impercettibili della macchina da presa in un’ambientazione chiusa da kammerspielfilm contribuiscono a creare la tensione su cui si fonda il significato del racconto.





4) La via senza gioia (Die freudlose Gasse, di Georg Wilhelm Pabst)


Nella Vienna del primo dopoguerra due ragazze, Greta (Greta Garbo) e Marie (Asta Nielsen), portano avanti un’esistenza difficile che le costringe a fare i conti con la povertà mentre intorno a loro si muovono uomini ricchi e senza scrupoli, capaci di vedere le donne esclusivamente come oggetti. Nonostante il racconto si sforzi di seguire le loro vicende, il vero protagonista sembra essere il vicolo Melchior eretto ad emblema della povertà assoluta in cui si trova a vivere la parte del mondo uscita sconfitta dalla grande guerra («non puoi aprire una porta qui senza vedere la miseria che ti fissa», esclama uno dei personaggi). Ultimo lavoro europeo della Garbo e primo vero successo di Pabst, il film dipinge uno spaccato crudo e sconvolgente in cui la morale è sostituita dalla necessità e in cui il vero motore delle azioni è rappresentato dal denaro.




5) La febbre dell’oro (The Gold Rush, di Charlie Chaplin) 


Il prototipo del film con protagonista Charlot: corse, capriole, sgambetti e una comicità ai limiti della tenerezza per questo personaggio debole ma coraggioso. L’ambientazione è quella ostile dell’Alaska di fine Ottocento, dove torme di cercatori si spingono a caccia di oro sfidando la natura e spesso sfidandosi tra loro. In questo contesto il vagabondo incontra sul suo cammino uomini violenti e donne spietate, tutti caratterizzati da una solitudine irrimediabile, ma per ingenuità o per convinzione non perde mai la fiducia negli esseri umani e quando non può avere ciò che desidera si accontenta di sognarlo ad occhi aperti. Rieditato dallo stesso Chaplin nel 1942 con l’aggiunta di alcune tracce musicali e di una voce fuori campo che sostituiva i cartelli, è però nella versione muta che mantiene intatto il suo fascino.



6) Il fantasma dell’opera (The Phantom of the Opera, di Rupert Julian) 


Tratto dal romanzo di Gaston Leroux, il quale si dice ne avesse regalato personalmente una copia al produttore Carl Lemmle in visita nella capitale francese, racconta il dramma di un musicista di talento costretto a vivere nei sotterranei dell’Opera di Parigi per nascondere il proprio volto sfigurato, ma intenzionato a favorire in ogni modo la carriera della cantante di cui è innamorato. Un po’ horror, un po’ dramma romantico, un po’ commedia, vive soprattutto dell’atmosfera complessiva che è in grado di restituire e della straordinaria interpretazione di Lon Chaney, a cui vanno attribuite le scelte in sede di trucco e una parte della regia dopo la cacciata di Julian. Circola tuttora in differenti versioni (alcune a colori o sonorizzate, una addirittura tratta dai negativi girati da una seconda macchina da presa).



7) Il ventaglio di Lady Windermere (Lady Windermere’s Fan, di Ernst Lubitsch) 


Lubitsch si trova negli Stati Uniti da tre anni e ha già all’attivo cinque film quando decide di portare sullo schermo la commedia di Oscar Wilde. Il tentativo precedente diretto da Fred Paul (1916) è stato un fallimento di pubblico e soprattutto di critica, ma in questo caso il regista tedesco riesce a trovare lo stratagemma per tradurre in immagini il fitto scambio di battute del testo originale. Le cose non dette diventano figure non viste, lo schermo assume a seconda delle necessità dimensioni differenti per connotare la psicologia dei protagonisti attraverso inquadrature soggettive e su tutte spicca l’interpretazione di Irene Rich nei panni di Mrs. Erlynne. Ne viene fuori un’opera leggera e accattivante in cui il gioco di equivoci su cui si fonda la trama serve a denunciare i residui di una moralità opprimente ormai fuori tempo massimo.  



8) Il mondo perduto (Lost world, di Harry Hoyt) 


Tratto dal romanzo di Arthur Conan Doyle – che, sessantaseienne, appare nelle prime inquadrature – rappresenta il capostipite per il filone dei “mondi perduti”. Le vicende hanno come protagonista un giornalista che, per mettere alla prova il proprio coraggio, si unisce ad una spedizione volta a dimostrare l’esistenza di un luogo remoto dove è possibile trovare dinosauri ancora in vita. Con diversi decenni di anticipo su Jurassic park (Spielberg gli renderà omaggio con alcune citazioni), Hoyt porta sullo schermo i rettili più temuti e accattivanti, da sempre dominatori dell’immaginazione umana. Lo stop-motion di Wills O’Brien, oggi certamente naif, ha il merito di riuscire a sorprendere un pubblico ancora poco abituato agli effetti speciali, tuttavia il film non brilla per la scrittura né per le inquadrature, decisamente troppo statiche per l’epoca.



9) Parigi che dorme (Paris qui dort, di René Clair)


Il raggio inventato da uno scienziato ha il potere di addormentare il mondo, fermandolo di fatto da un momento all’altro. Ad accorgersene sono, per caso, il guardiano della Torre Eiffel e un gruppetto di persone atterrate a Parigi. Tutta la città dorme, mentre loro si divertono a bere, rubare, correre, finché non subentra la noia e devono attivarsi per ripristinare tutto. Girato nel 1923, ma distribuito solo dopo il successo di Entr’acte (1924), questo piccolo capolavoro circola in due versioni: una di 35min, frutto di un rimaneggiamento voluto dallo stesso regista negli anni ’70; la seconda, originale, di circa un’ora. In entrambe lo spirito giocoso e il desiderio di libertà dell’autore emergono grazie ai movimenti, quasi danzati, degli interpreti e al ritmo conferito dal montaggio (curato, come la sceneggiatura, da Clair).



10) Fra’ Diavolo (di Roberto Roberti) 


Di Roberto Roberti, nome d’arte di Vincenzo Leone (padre di un altro regista, Sergio, che diventerà famoso qualche decennio dopo), si conoscono una quarantina di titoli circa, la maggior parte dei quali è considerata oggi perduta. Qualche anno fa, grazie al lavoro della Cineteca di Bologna, una copia superstite di questo film ritrovata in Brasile, è stata restaurata. È stato così possibile riportare sullo schermo le avventure di Michele Pezza, soldato che a fine Settecento si trasforma in brigante per difendere Napoli dall’occupazione francese. Lontano dai tentativi di cinema d’arte in stile Cabiria, così come dalle opere costruite per le dive, Fra’ Diavolo rappresenta un’eccezione nel panorama italiano dell’epoca grazie alla mescolanza di azione e politica oltre che all’interpretazione di Gustavo Serena all’apice della sua carriera.



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