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L'ombra

  • traumfabrikblog
  • 6 giorni fa
  • Tempo di lettura: 5 min

1923, 90min.

di Mario Almirante

con Italia Almirante Manzini, Alberto Collo, Liliana Ardea


Recensione di Mauro Azzolini


Spoilerometro:

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A cavallo tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso in Europa imperversavano autori e movimenti capaci di trasformare l’immagine cinematografica da semplice ripresa di una scena recitata in opera d’arte. Tramite la deformazione dell’inquadratura, la sovrapposizione di piani differenti della narrazione visiva o la ridefinizione della grammatica del montaggio, il cinema espressionista in Germania, quello impressionista, dadaista, surrealista in Francia e quello dell’avanguardia sovietica mostravano al mondo quanto la pellicola potesse essere un terreno fertile non solo per la sperimentazione, ma anche per il reperimento di nuove modalità espressive. A differenza dei paesi appena citati l’Italia non conosce questo tipo di esperienze e anche il tentativo di dare vita ad un cinema futurista, in quegli anni, ha scarse ricadute sulla produzione (l’unico titolo sopravvissuto tra i pochi ad aver visto la luce è Thais, girato nel 1917 da Anton Giulio Bragaglia). 


Il mondo cinematografico italiano non sembra, infatti, interessato a ragionare in termini artistici. Il sistema, oscillante tra i due grandi centri produttivi di Roma e Torino, lavora per offrire al pubblico unicamente ciò che esso desidera: peplum ante-litteram, commedie borghesi e drammi (a volte) in costume. In questo contesto a spadroneggiare su produttori e registi sono le attrici, le cosiddette Dive. Nelle loro mani sta il potere di determinare il successo di un film (anzi, di una film, visto che all’epoca la parola è intesa ancora come forma inglese di ‘pellicola’ e dunque declinata al femminile) e alla loro volontà e al loro capriccio deve rimettersi chiunque voglia fare soldi nell’ambiente. Si tratta di poche ragazze, tutte sotto i trent’anni e pressoché coetanee, la cui notorietà supera quella di ogni altro artista o personaggio pubblico.


Il Diva-film diventa dunque il genere attorno al quale ruota parte importante delle opere cinematografiche realizzate in Italia tra il 1910 e il 1925. I corpi di Francesca Bertini, Lyda Borelli, Pina Menichelli, Italia Almirante Manzini, Leda Gys e Diana Karenne, sono quelli su cui si costruisce l’immagine da proiettare. A differenza dei film d’arte esteri, nel nostro paese la sperimentazione – certamente più timida e non rivendicata come scelta esplicita – trova lentamente spazio nella creazione di un racconto in cui ogni singola inquadratura, e dunque ogni azione, ogni complemento, ogni fonte luminosa, ogni cartello, si pone in relazione con la figura femminile e in base ad essa assume senso. Il Diva-film, insomma, è la nostra avanguardia.


Ma nonostante questa piccola avanguardia trovi spessissimo concretizzazione nella forma del dramma con protagonista una femme fatale, non tutti i titoli corrispondono a tale canone. Un caso interessante di film controcorrente è rappresentato da L’ombra. Ispirato all’omonima opera teatrale di Dario Niccodemi e adattato una prima volta per il cinema da Mario Caserini, il film viene portato sullo schermo nel 1923 da Mario Almirante (regista e attore, padre del più celebre Giorgio che sarà prima repubblichino e poi segretario del MSI) che attribuisce il ruolo di Berta, la protagonista, alla cugina Italia Almirante Manzini.


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Berta è una giovane donna allegra e vitale le cui giornate passano veloci tra una partita a tennis e un po’ di conversazione con gli amici. Accanto a lei sta il marito Gerardo, pittore eccellente e amante fedele che non sembra neanche accorgersi della cotta che Elena, nipote di Berta, ha per lui. Un giorno, in seguito a un male improvviso, Berta si ritrova paralizzata dal collo in giù. La sua vita, inizialmente serena grazie alle premure del marito, comincia a farsi meno gioiosa e, man mano che le attenzioni vengono meno, viene meno anche la certezza dell’amore. Passano quattro anni e Berta, miracolosamente, ritorna a muovere le braccia e poco dopo a camminare. Intenzionata a fare una sorpresa a Gerardo si reca nel suo studio di pittura e lì viene a conoscenza della relazione che questi ha intrapreso con Elena. Dalla relazione è nato un bambino, diventato ormai il modello prediletto per i quadri di Gerardo. Dopo un lungo momento di crisi i due scopriranno di essere ancora innamorati e sceglieranno di allontanare Elena, ormai sentimentalmente legata a un altro uomo, tenendo però il bambino.


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Già da questa stringata descrizione si comprende quanto si sia distanti dai prototipi di Diva-film che Salvador Dalì raccontava scrivendo «ricordo quelle donne dal passo vacillante e convulso, le loro mani naufraghe dell’amore che andavano accarezzando le pareti lungo i corridoi, aggrappandosi alle tende e alle piante. […] In quell’epoca critica e turbolenta dell’erotismo, le palme e le magnolie venivano letteralmente prese a morsi, strappate coi denti da queste donne, il cui aspetto fragile e pre-tubercolare non escludeva tuttavia forme audacemente modellate da una giovinezza precoce e febbricitante». Qui la protagonista non è raccontata nelle sue forme sensuali o nelle sue coreografie, per la semplice ragione che per la quasi totalità dell’opera la vediamo seduta. La sua sofferenza non trova sfogo dinamico, ma rimane confinata all’espressione del viso, alla postura del mento, alla natura dello sguardo.


È in questo lavoro di sottrazione, di reinterpretazione della centralità femminile dentro e contro il mainstream, che Italia Almirante Manzini realizza la sua migliore performance attoriale. L’attrice che aveva incantato nei panni di Sofonisba ai tempi di Cabiria (1914), che aveva portato al culmine la parabola della donna autodistruttiva in Femmina (1918) e che aveva sdoppiato se stessa ne La maschera e il volto (1919), è qui ridotta al paradosso di un’immobilità che genera compassione spegnendo gli ardori. Ma il paradosso, o meglio l’opzione narrativa che sembra prediligere la scelta meno prevedibile, è forse la cifra dell’intera opera. In questo senso si spiegano le strade impreviste che il racconto prende nei suoi punti di svolta. La crisi dell’ordine iniziale, come si diceva, viene risolta con la più inaspettata (per il pubblico dell’epoca) delle soluzioni: la paralisi della protagonista. Allo stesso modo la ricostruzione finale dell’ordine, con la scelta di tenere con sé il figlio dell’adulterio, si configura come corollario perfetto all’altra extra-ordinarietà, ossia la fuga di Elena con l’abbandono del bambino. 


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Ricco di elementi ulteriori di interesse – si pensi al rapporto tra immagine femminile e arti figurative che Manzini riporterà sullo schermo nel 1921 con La bambola di carne e che già aveva occupato le scene di capolavori del genere come Il fuoco (di G. Pastrone, 1915) – il film è oggi visibile grazie a un accurato lavoro di restauro condotto dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e dalla Cinémathèque Royale de Belgique. Ulteriormente raffinato tra il 2022 e il 2023, è stato presentato alle Giornate del cinema muto di Pordenone 2025 in una nuova versione in 4k (e della durata di 90 minuti a differenza dei 72 della versione più completa finora conosciuta) nella quale i contrasti sono tornati a dare profondità alle scene e le interpretazioni attoriali possono rivivere in tutta la loro freschezza.


Voto: 4/5


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