2024, 141min.
di James Mangold
con Timothée Chalamet, Monica Barbaro, Edward Norton, Elle Fanning
Recensione di Giovanni Comazzetto
Spoilerometro:

Corre l’anno 1965: Dylan si esibisce al Newport Festival con un sound “elettrico” che irrita gli ortodossi del folk. Nel film di James Mangold – regista non nuovo ai biopic musicali, se si pensa all’ottimo Walk the Line del 2005 – si esagera la reazione negativa del pubblico, attribuendo a quella svolta musicale tutta la sua carica innovativa. Non è stato un tradimento, o l’inizio di un percorso di disimpegno civile (opinione che si può smentire facilmente: basta ascoltare Hurricane, del 1976); piuttosto, sembra suggerire il film, attaccando la chitarra all’amplificatore Dylan ha inteso proseguire la tradizione della canzone popolare con altri mezzi.

Prima di arrivare all’esibizione al Newport, che occupa la parte finale del film, assistiamo alla nascita del mito. Dylan raggiunge New York portando con sé solo una chitarra; va a trovare in ospedale il suo mentore Woody Guthrie, malato e incapace di parlare; inizia ad esibirsi nei locali del Greenwich Village. Ci sono parecchi musicisti più bravi di lui, ma nessuno è come lui. Le sue sono canzoni folk «spigolose e taglienti, con contorno di fuoco e di zolfo» (1); non passa molto tempo prima che gli venga offerto un contratto. Molti sono gli incontri fondamentali nella sua ascesa, ma il film si concentra su due artisti in particolare: Pete Seeger, “sacerdote” del folk (un ispirato Edward Norton), e Joan Baez, l’Usignolo di Woodstock.

Tra i molti pregi del film, figura indubbiamente la rappresentazione del “personaggio” Dylan: non si indugia nell’indagine psicologica, né si smorzano certe spigolosità di carattere. Sulle origini del «menestrello», poi, si mantiene un alone di mistero; ed è meglio così. I’m a rambler, I’m a gambler. I’m a long way from home. Il poeta non ha un’identità definita. Di certo, Dylan non ne emerge come un soggetto piacevole da frequentare: amicizie e relazioni contano meno del processo creativo. Qualche schematismo di troppo, per contro, emerge nella rappresentazione di Sylvie Russo (in realtà Suze Rotolo, la ragazza che compare nella copertina dell’album The Freewheelin’ Bob Dylan).

Le vicende politiche sottese alla parabola artistica di Dylan sono perlopiù tratteggiate. Quando Pete Seeger appare sullo schermo, è intento a difendersi dall’accusa di svolgere attività sovversive. Siamo negli anni del maccartismo. Lo stesso Dylan, pur rompendo con la comunità folk che aveva visto in lui il portavoce di una generazione, continuerà a credere nella possibilità di una «repubblica invisibile» (l’espressione è del critico musicale Greil Marcus), raccolta intorno alle sue canzoni e all’idea che la musica sia una strada per esplorare l’universo.
(1) Bob Dylan, Chronicles. Volume 1, Feltrinelli, 2005, p. 9.
Voto: 3,5/5
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