1988; 124 minuti
di Katsuhiro Ȏtomo
con Mitsuo Iwata, Nozomu Sasaki, Mami Koyama
Recensione di Francesco Mosca
Spoilerometro:

Visionario, alienante, disturbante; sono solo alcuni degli aggettivi con cui si può descrivere Akira, capolavoro dell’animazione giapponese che oltre trenta anni fa segnò indubbiamente un “prima” e un “dopo” dalla sua uscita.
Lo sforzo produttivo fu immenso, il budget stanziato per la realizzazione del film fu di 1 miliardo di Yen (7 milioni di dollari circa), e furono coinvolti circa 50 studi di animazione dell’epoca (di cui solo 5 impiegati nella realizzazione degli sfondi) e 1300 animatori; vennero inoltre introdotte importanti innovazioni tecnologiche, quali il pre-recording nel doppiaggio e un primo uso, seppur limitato, di CGI.

Il film è ambientato in una Tokyo post-atomica (Neo Tokyo) in cui imperversano bande di motociclisti adolescenti che si sfidano in corse e duelli all’ultimo sangue. Durante l’inseguimento di una banda rivale l’adolescente Tetsuo Shima rimane coinvolto in un incidente con Takashi, uno strano bambino dalle fattezze di vecchio. Tetsuo viene rapito e curato da un gruppo di militari che dà la caccia a Takeshi; a questo punto Kaneda Shotaro, leader della banda di Tetsuo, si unisce al movimento di resistenza per andare in salvo dell’amico Tetsuo senza sapere che, nel frattempo, le cure su Tetsuo hanno risvegliato in lui inquietanti poteri psichici.
Da questo momento della storia lo spettatore viene trascinato in un vortice di azione, cyber-punk, orrore e paranormale. Il ritmo si intensifica man mano che il film avanza ma lo fa con puntualità, senza frenesia, fino a giungere alla (spettacolare) resa dei conti finale.

Un intreccio così complesso ben si presta a celare una maggiore complessità dal punto di vista dei temi trattati. Alcuni topoi sono ben evidenti, come l’antimilitarismo o il terrore della minaccia atomica, uno dei principali leitmotiv della filmografia Giapponese dal dopo guerra fino ad oggi che viene spesso rivisitato e ricontestualizzato in un’ottica di attualizzazione.
Vanno però ricordati anche l’autodeterminazione individuale, rappresentata da Kaneda e da tutto ciò che è disposto a fare per salvare Tetsuo (oltre che da Tetsuo stesso), insieme all’amore, l’altro motore fondamentale delle azioni di Kaneda; ma pure l’influenza che le nostre scelte hanno su chi ci sta intorno (nel senso più ampio di comunità).
Eliminati questi elementi di sottofondo, infatti, si incontra il cuore pulsante del film, un’analisi dei meccanismi del potere e del potere delle scelte e del ruolo che tali scelte hanno nell’ influenzare radicalmente l’esistenza non solo di chi le compie (Tetsuo/Kaneda in questo caso) ma anche di chi le subisce passivamente. Kaneda e Tetsuo sono gli unici due personaggi che, di fatto, si configurano come motori di azione attiva, ma i loro comportamenti finiranno col condizionare radicalmente le esistenze di chi li circonda.
Proprio la decisione di Tetsuo di non rinunciare al suo potere porterà infatti tutti i protagonisti al confronto finale dello stadio, durante il quale verrà liberato Akira, incarnazione della primitiva forza distruttrice senza cui, però, non potrebbe esserci rinascita.

A distanza di 30 anni la visione di Akira riesce ancora a colpire e influenzare profondamente lo spettatore; la straniante Neo-Tokyo sembra una trasposizione animata delle ambientazioni visionarie di Blade Runner ed è diventata il punto di riferimento per le ambientazioni di altre opere di culto come Ghost in the Shell e le creazioni del mangaka Tsutomu Nihei, in particolare Blame e Abara, mentre il misticismo cosmico e l’affermazione del proprio “io” rimandano al Kubrick di 2001: Odissea nello spazio e Arancia Meccanica.
VOTO: 5/5
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