Blade Runner – The final cut
- traumfabrikblog
- 6 giorni fa
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2007 (orig. 1982), 118min.
di Ridley Scott
con Harrison Ford, Sean Young, Rutger Hauer
Di Giovanni Comazzetto
Spoilerometro:

In tempi in cui si discute molto dei rischi dell’intelligenza artificiale, il ritorno al cinema di un film come Blade Runner appare quanto mai opportuno. Il capolavoro di Ridley Scott, infatti, non solo rappresenta uno dei vertici del cyberpunk – per quanto la sua appartenenza al genere sia questione controversa –, ma propone anche una straordinaria riflessione sul tema della “disumanizzazione” connessa allo sviluppo tecnologico. Prima di affrontare il nucleo concettuale del film, è però utile spendere qualche parola sulla trama e sulla genesi dell’opera. Tra i molti colpi di genio degli sceneggiatori, figura quello di essersi allontanati in diversi punti dal romanzo di Philip Dick che ne costituisce la fonte di ispirazione (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, del 1968).

Il film è ambientato in una Los Angeles cupa e caotica, una sorta di distopia urbana coperta da una pioggia incessante. La società di Blade Runner è multiculturale, violenta, dominata da grandi corporations le cui enormi pubblicità campeggiano su ogni grattacielo. Lo scenario è pertanto molto diverso rispetto al romanzo di Dick, che si svolge a San Francisco, città rappresentata come semi-deserta e coperta da polveri radioattive.
Il protagonista è Rick Deckard (Harrison Ford), di professione blade runner, una sorta di agente di polizia incaricato di “ritirare” (ossia eliminare) i replicanti. Questi ultimi sono androidi pressoché indistinguibili dagli esseri umani, banditi dalla Terra sotto pena di morte e condannati a una breve esistenza da schiavi in altri pianeti. Deckard, temporaneamente ritiratosi, è richiamato in servizio dal suo capo Bryant (M. Emmet Walsh) quando quattro replicanti della tipologia “Nexus 6” fuggono dalle colonie extra-mondo e si mimetizzano nella popolazione losangelina, allo scopo di incontrare lo scienziato Tyrell (Joe Turkel).

I quattro fuggitivi sono destinati a una vita breve (quattro anni), e vedendo sempre più vicino questo termine sperano di ottenere più tempo dal loro “creatore” (Tyrell, appunto). Quando va ad incontrare lo scienziato, Deckard conosce Rachael (Sean Young), una dipendente della “Tyrell Corporation” che non sa di essere una replicante. Deckard, su richiesta di Tyrell, sottopone Rachael al test Voight-Kampff, che misura il grado di empatia del soggetto attraverso una serie di domande e risposte. Rachael, che già aveva dei sospetti sulla propria identità, si rende conto di essere una replicante e fugge, ma Deckard si rifiuta di eliminarla, essendosi innamorato di lei, e la aiuta a nascondersi dalla polizia. Nel frattempo la ricerca degli altri replicanti prosegue: Deckard li elimina uno dopo l’altro, fino a che non rimane Roy (Rutger Hauer), il loro capo, che pur essendo prossimo alla morte sovrasta Deckard nel combattimento corpo a corpo. Alla fine, però, Roy gli risparmia la vita e si spegne; Deckard torna a casa e poi fugge con Rachael, verso un destino incerto.

Questo, almeno, è il finale che si è visto al cinema recentemente, nella versione conosciuta come “final cut” (in verità già uscita nel 2007). La storia delle diverse versioni del film riveste un certo interesse. A dire il vero, si possono contare addirittura sei differenti versioni di Blade Runner. Possiamo limitarci ad analizzarne due: quella conosciuta come “original cut”, uscita nelle sale statunitensi nel 1982, e appunto la “final cut” del 2007.
La prima fu l’esito di una corsa ai ripari dopo l’esito negativo dell’anteprima del film: a non convincere i primi spettatori furono in particolare le atmosfere cupe e il finale ambiguo (che vedeva Deckard e Rachael entrare in un ascensore, dopo aver scoperto che la polizia era appena stata lì). Nella versione proiettata successivamente al cinema furono allora inclusi alcuni accorgimenti tutt’altro che marginali, in particolare la voce fuori campo di Deckard (un po’ à la film noir su Philip Marlowe) e un happy ending posticcio.

La versione “final cut” presenta almeno tre differenze: la voce fuori campo è rimossa, così da rendere il personaggio di Deckard più ambiguo sul piano morale; è poi inserito un sogno di Deckard riguardante un unicorno, scena che conferisce un nuovo significato all’origami lasciato davanti al suo appartamento alla fine del film; e il finale, appunto, torna ad essere aperto come nella versione originariamente pensata da Ridley Scott. La “final cut” è forse preferibile, in quanto restituisce – più della versione edulcorata per il pubblico americano – la radicalità e innovatività degli interrogativi proposti dal film.
Nel mondo di Blade Runner, la principale conseguenza di uno sviluppo tecnologico privo di limiti sembra essere quella di una sostanziale disumanizzazione. La scienza ha qui raggiunto un obiettivo al contempo straordinario e perturbante: quello di creare androidi in tutto simili agli esseri umani, al punto da essere indistinguibili da questi ultimi. Lo stesso Deckard, esperto “cacciatore di replicanti”, fatica a riconoscere in Rachael una di loro; e quest’ultima, all’inizio del film, è perfino ignara della sua condizione.

Lo slogan dell’azienda che produce i replicanti, la Tyrell Corporation – «più umano dell’umano» – suona per certi versi ironico. Da una parte, i pochi esseri umani che compaiono nel film appaiono malati, soli, disillusi, quasi “disumani”; dall’altra parte, i replicanti sembrano provare invece “vere” emozioni: si interrogano sulle loro origini, solidarizzano tra loro, temono la morte e dimostrano uno straordinario attaccamento alla vita. Emblematico è, in questo senso, il dialogo tra il replicante Roy e l’umano Tyrell: il primo si rivolge al suo creatore come a un padre e gli chiede aiuto e spiegazioni, ma questi reagisce quasi con indifferenza, senza comprendere le ragioni di chi gli sta di fronte e la tragicità della sua condizione – a ben vedere non diversa da quella umana, ossia l’ineluttabilità del dolore e della morte. La reazione rabbiosa di Roy – anch’essa del tutto “umana” – ricalca il topos (letterario e religioso) della ribellione della creatura al suo Creatore, al termine di un dialogo denso di riferimenti cristiani.

In una società iper-tecnologica dominata dalla logica del profitto, l’ambizione umana di creare la vita senza alcun limite sembra quindi portare a uno scenario terrificante. La capacità di “produrre” esseri umani artificiali ha come prezzo, paradossalmente, la distruzione dell’identità e la perdita della condizione umana. Disumanizzazione significa proprio questo: è «quel processo quasi inimmaginabile attraverso il quale gli esseri umani vengono resi così radicalmente altri che le loro vite non contano nulla» (1). Vite senza più valore sembrano essere quelle degli esseri umani del film, decadenti e condannati alla solitudine come J.F. Sebastian (William Sanderson), progettista genetico che vive in mezzo a giocattoli animati da lui creati, o come Gaff (Edward James Olmos), poliziotto claudicante e disilluso. I replicanti, per quanto più “vitali”, sono pur sempre dotati di ricordi fittizi, e soffrono questa condizione di sradicamento: si pensi al loro sorprendente attaccamento alle fotografie di famiglia (anch’esse fasulle), o all’esplosione di rabbia del replicante Leon (Brion James) quando gli vengono fatte delle domande su sua madre.

Il film, si potrebbe dire, si chiude con questo interrogativo: è questa la società che vogliamo, fatta di individui soli, disillusi e senza identità? Nella versione “original cut” una scintilla di speranza sembrava potersi leggere nell’happy ending e nell’amore tra Rick e Rachael come ultima forma di resistenza alla disumanizzazione; ma nella “final cut” il sipario, proprio come le porte dell’ascensore nel film, si chiude prima, lasciando nello spettatore un senso di angoscia. Dopo l’orrore, l’angoscia, ma anche la sensazione di aver ammirato un’opera d’arte assoluta, un’esperienza “vitale” che raramente il cinema è oggi in grado di offrire.
(1) S. Oliver, Dehumanization: Perceiving the Body as (In)Human, in P. Kaufmann, H. Kuch, C. Neuhaeuser, E. Webster (a cura di), Humiliation, Degradation, Dehumanization. Human Dignity Violated, Springer (2011).
Voto: 5/5
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