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Fuori dall’umano

  • traumfabrikblog
  • 24 lug
  • Tempo di lettura: 9 min

Un percorso di ricerca dell’umanità al cinema tra Stefano Benni e Akira Kurosawa


di Mauro Azzolini


L’epoca delle grandi trasformazioni è al suo apice. Il processo iniziato con la rivoluzione industriale sembra avere raggiunto il massimo sviluppo possibile, ma contrariamente a quanto si sarebbe potuto immaginare (o sperare) il risultato non è stata la liberazione dell’uomo dal lavoro, quanto piuttosto la liberazione del profitto dall’uomo. A ben vedere, infatti, la robotizzazione, l’intensificarsi dell’automazione e le intelligenze artificiali, non hanno eliminato la variabile dello sfruttamento dall’orizzonte del quotidiano, ma hanno semplicemente consentito di massimizzare i profitti relegando l’uomo ai margini di una società che non ruota più intorno a lui. Inevitabilmente questo processo ha avuto come conseguenza primaria l’allontanamento dell’uomo dalla natura. Perché se è vero che il desiderio di comprendere, catalogare – in ultima analisi razionalizzare – alla base dello sviluppo scientifico e tecnologico rispondeva a tutti gli effetti al bisogno di allontanare la fatica e i pericoli per proteggere la specie, altrettanto vero è che più l’uomo andava conoscendo il mondo più si allontanava da esso. 

Di questo essere umano che vive in uno spazio sempre meno a misura d’uomo ci parla il cinema d’autore dei nostri giorni: basti pensare agli incubi di Aster o di Peele, alle mutazioni di Cronenberg o di Fargeat, alle crudezze di Garrone o dei D’Innocenzo, alle solitudini di Lanthimos o Larraín. Tagliato fuori tanto dalla natura quanto dalla cultura, perso in questa nuova epoca radicalmente anti-umanista che più che antropocene sarebbe il caso di definire “età dell’algoritmo” (aggiornando quell’elenco di denominazioni fondate sugli strumenti come età della pietra, età del bronzo, età del ferro, ecc.), incapace di comprendere flussi finanziari, guerre e cambiamenti climatici, l’uomo del ventunesimo secolo si trova ad osservare come uno spettatore i titoli di coda della propria specie. Ma è davvero tutto finito o in questo allontanamento dell’uomo dallo spirito del tempo è possibile trovare gli elementi per un modello alternativo? 


La risposta, come spesso accade, sta già nella domanda. E per argomentarla sarebbe sufficiente osservare più da vicino i tentativi di ri-umanizzazione del racconto cinematografico portati avanti negli ultimi anni, per esempio, da Alice Rohrwacher o Jonas Carpignano, differenti nella scelta delle chiavi di lettura, ma saldamente ancorati alla centralità dell’individuo come alternativa alla brutalità del mondo. Tuttavia lo spunto per questa riflessione sull’umanità fuori dall’umanità nel cinema è offerto da due film meno recenti e tra loro molto diversi: il primo, Musica per vecchi animali, girato in Italia nel 1989 da due esordienti assoluti come Stefano Benni e Umberto Angelucci (per i quali questa rimarrà anche l’unica esperienza di regia cinematografica) e distribuito con pessimi riscontri in termini di pubblico e di critica; il secondo, Dersu Uzala, frutto di una coproduzione sovietico-giapponese, firmato da uno dei nomi più autorevoli della storia del cinema, Akira Kurosawa, e premiato con l’Oscar per il miglior film straniero nel 1975.


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La vicenda di Musica per vecchi animali trae spunto da un romanzo dello stesso Benni, Comici spaventati guerrieri, pubblicato da Feltrinelli nel 1986. Non si tratta però di una trasposizione cinematografica, perché gli elementi originali nel film sono tanti. A rimanere identica è l’ambientazione distopica: una metropoli italiana di un futuro non definito in cui, in seguito a una misteriosa imposizione governativa, i liberi spostamenti dei cittadini sono quasi del tutto proibiti. In questo stato d’emergenza –  che uno dei protagonisti definisce con grande lucidità («emergenza è quando non puoi chiedere perché è emergenza») e che ricorda da vicino i mesi di coprifuoco vissuti qualche anno fa dopo il lockdown – tre personaggi chiaramente fuori dagli schemi provano ad attraversare la città per raggiungere un ospedale. Sono il professore in pensione Lucio Lucertola (Dario Fo), l’indomabile dodicenne Lupetta (Viola Simoncioni) e il meccanico Lee “Tigrotto” (Paolo Rossi).


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Il mondo nel quale sono costretti a vivere è connotato da ogni punto di vista come inumano; l’assenza di empatia, di tolleranza e di rispetto per i sentimenti domina le relazioni e l’esercizio del potere assume i tratti di un arbitrio violento e incomprensibile. La stessa città sembra riflettere nella sua architettura queste dinamiche. Le strade gigantesche, ricoperte di asfalto e circondate di cemento, gli edifici smisurati, l’anonimato dei quali è spia dell’anonimato di chi li vive. Tutto concorre a definire una geografia che marca la distanza dai sentimenti. Non è un caso che le scene ambientate in questi spazi siano state girate in esterna, nelle zone periferiche o di edilizia più spregiudicata di Roma (Colle Salario, Tor Marancia, Giuliano-Dalmata) e Bologna (Pilastro, San Donato, Saffi). In uno scenario come questo, tra condomini in costruzione e carreggiate non ancora terminate, la distanza dell’uomo da quel poco che rimane di buono e incontaminato appare evidente. Chi lo attraversa può farlo solo in due modi: o trionfalmente, da soggetto che ne condivide le istanze, o da reietto, da marginal man, come avranno modo di mostrare in modo magistrale pochi anni dopo Ciprì e Maresco a Palermo, tra gli stradoni di Brancaccio e Bonagia.


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I reietti di Benni, però, sono simpatici. Ridono del proprio destino e sono capaci di sfidare il sistema con l’ironia. La loro è una ribellione che punta a mettere in crisi le regole non solamente violandole, ma ribaltandone in modo imprevedibile il senso. In questo modo il meccanismo fondamentale della comicità opera da strumento di significazione proponendo tre personaggi apparentemente drammatici e irrisolti – la ragazzina trascurata dai genitori, l’anziano nostalgico del passato, il giovane ex-galeotto – come giullari improvvisati, le cui risate diventano pericolose e necessitano di essere ridimensionate. Tra le strade della metropoli, infatti, c’è chi di senso dell’umorismo è completamente sprovvisto. E non si tratta solamente delle forze dell’ordine che ogni tanto fanno capolino per interrompere il tragitto di Lee e dei suoi accompagnatori. C’è Rambo Sandri, arrogante finanziere che si mette all’inseguimento dei tre con l’intento di ucciderli. La sua professione, il suo attaccamento al denaro e alle cose (la macchina, la motocicletta), la sua smania di apparire potente sono tutti elementi utili a renderlo l’esempio migliore di quel nuovo tipo umano, emerso a cavallo degli anni ’80, che fa dell’egoismo e del disprezzo nei confronti degli altri la propria ragione di vita. Il mondo di cui Sandri è simbolo è un mondo in cui chi è più debole deve obbedire e lavorare senza lamentarsi, mentre quelli come lui possono godere infinitamente ed esigere rispetto; è il mondo del libero mercato, dei consumi e dei bisogni indotti; è il mondo di Reagan e Thatcher, ma anche di Trump e Von Der Leyen; un “oggi” di quasi quarant’anni fa tremendamente simile a quello attuale.


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L’antidoto a questo mondo decisamente inumano sta allora nella ricerca e nella rivendicazione dell’umanità. Ma dove trovarla se gli spazi e persino gli esseri umani ne sono sprovvisti? Nella natura, è chiaro. Si comprende in quest’ottica la ragione che presiede alla scelta dei nomi dei protagonisti (Lucertola, Lupetta, Tigrotto), tutti da ricondurre al mondo animale così come quelli dei personaggi positivi che questi incontrano (Astice, Topo dei giornali, Gatto fantasma, Castoro della galassia). Se il mondo che l’uomo ha creato è diventato così inospitale per chi rivendica un sentimento umano, toccherà agli animali – ossia a coloro che i nostri tempi definiscono tali – provare a riaffermarlo. Sono queste creature a volte buffe o capricciose, retaggio di un processo evolutivo che non ha saputo arrivare alla modernità (la cosiddetta “civiltà della caffettiera” di cui parla una voce fuori campo sui titoli di testa e le cui tracce vengono mostrate dal robivecchi interpretato da Francesco Guccini), a diventare gli emblemi dell’umanità. È per questa ragione che vengono definiti “vecchi” nel titolo, perché il loro modo di intendere e vivere la vita, attento al prossimo e alla collettività, è ormai superato. Sono loro i dinosauri che campeggiano in forma di graffito sui muri della città, quasi fossero slogan di un’ipotetica resistenza nascosta. 


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La ricerca dell’umano ha, dunque, come punto di approdo la natura. A partire da essa si può rifondare la realtà e trovare le norme di convivenza necessarie. Ma se questo discorso sul futuro è in realtà un discorso sul presente, ossia un racconto in cui in modo abbastanza semplice i tempi di là da venire si fanno allegoria dell’attualità (quasi ad ammonire lo spettatore: «correggi il tuo modo di essere, altrimenti un giorno il mondo potrebbe essere così»), risulterà interessante provare a verificare se lo stesso meccanismo possa funzionare con il passato. L’occasione in questo senso è offerta dal secondo dei due film menzionati in apertura.


Uscito nel 1975, Dersu Uzala rappresenta l’unico lavoro di Akira Kurosawa di ambientazione non giapponese. Il film – prodotto dalla Mosfil’m, casa sovietica alla quale si devono i maggiori successi di autori come Ejzenštejn (La corazzata Potëmkin, Ivan il terribile), Tarkovskij (Andrej Rublëv, Solaris) o Bondarčuk (Guerra e pace, Waterloo) – è infatti l’adattamento di due pubblicazioni dell’esploratore russo Vladimir Arsen’ev, le cui vicende sono collocate nella taiga siberiana a inizio Novecento. Al centro del racconto si colloca l’incontro tra la piccola truppa dello stesso capitano Arsen’ev, in viaggio per una spedizione topografica nel distretto Ussuri (al confine tra Russia e Cina), e il cacciatore nomade di etnia hezen Dersu Uzala. La situazione è quella tipica da romanzo positivista, se non addirittura illuminista, ottocentesco: agli uomini evoluti, capaci di comprendere e definire la realtà e dotati di ogni strumento tecnologico, fa da contraltare il “buon selvaggio” riluttante nei confronti della modernità e portatore di un animo incontaminato.


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Dersu Uzala (Maksim Munzuk) mostra una stupefacente capacità di mantenere il contatto con la natura che lo circonda, non interferisce con l’andamento delle cose, non impone la propria presenza di uomo nel contesto che occupa se non per quanto indispensabile a sopravvivere (costruire una piccola capanna, accendere un fuoco, procacciarsi il cibo). La sua bravura nell’orientarsi e nel comprendere i piccoli segni presenti sulla terra o tra i rami lo portano a stabilire immediatamente un legame di fiducia con il contingente russo, ma mentre i soldati – meno disponibili a cogliere le sfumature esistenziali delle considerazioni di Dersu – ridono ogni volta che vengono a conoscenza degli elementi su cui si basano le sue valutazioni, il capitano Arsen’ev (Jurij Solomin) rimane affascinato.


A suscitare le risate dei russi è soprattutto l’abitudine di Dersu di definire “uomini” i diversi elementi della natura. Per esempio, quando un giorno al tramonto si trovano davanti al fiume, risponde così agli sfottò: «anche questo è uomo, l’acqua è viva. Anche il vento è uomo. Fuoco arrabbia e taiga brucia molti giorni. Se fuoco arrabbia, fa paura. Se acqua arrabbia, fa paura. Se vento arrabbia, fa paura. Fuoco, acqua, vento, tre uomini forti». L’idea di fondo, di stampo animistico, tende ad attribuire in modo molto elementare un carattere umano ad ognuna delle manifestazioni del reale che si presentano all’esperienza. Di conseguenza Dersu definisce “uomini” anche gli animali, gli alberi, le stelle. Ma questa considerazione non sfocia unicamente nel timore, poiché a dominare ogni altra attitudine è prima di tutto il rispetto, tanto nei confronti dei fenomeni naturali quanto verso gli esseri viventi, poiché tra questi non vi è alcuna differenza. 


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È così che gli scarti di cibo non vengono buttati nel fuoco, perché un animale arrivato dopo di loro potrebbe bruciarsi nel tentativo di prenderli, o che una capanna trovata nella foresta viene prima di tutto rinforzata e poi riempita di legna per riscaldarsi prima di abbandonarla, perché qualcuno potrebbe arrivare in seguito in condizioni peggiori e avere bisogno di trovarla pronta all’uso. Passo dopo passo il “selvaggio” Dersu – in virtù anche di un punto di svolta nel racconto che è possibile collocare nel momento in cui salva la vita ad Arsen’ev sul lago ghiacciato (una sequenza stupenda in cui Kurosawa, da gigante qual è, entra in dialogo con la storia del cinema sovietico richiamando Tempeste sull’Asia di Pudovkin) – finisce per educare i soldati russi al rispetto per la natura. 


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Da oggetto ipotetico di un processo di civilizzazione, il “piccolo contadino delle grandi pianure” (questo il sottotitolo con cui il film esce in Italia in una versione ridotta di un quarto d’ora dai tagli di Giuseppe Bertolucci e Kim Arcalli) diventa soggetto educatore per la gente già civilizzata. Il mondo sicuro, pulito e razionale nel quale vivono i soldati russi è un mondo che agli occhi di Dersu ha perso umanità, ossia ha perso la capacità non solo di rispettare gli altri esseri umani, ma soprattutto di considerare la natura come elemento con il quale convivere alla pari. È inevitabile, allora, che il suo processo involontario – ma non per questo meno esplicito – di ricerca di umanità abbia come punto di partenza e di arrivo il rifiuto di questa smania tutta moderna di misurare, descrivere, denominare: non serve più di un termine per descrivere ciò che nel mondo ha valore, e quel termine è “uomo”.


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Al termine di questo percorso, all’incrocio tra le suggestioni di un futuro distopico italiano e quelle della taiga del 1902, si colloca l’attualità. Perché se è chiaro che la risposta alla domanda iniziale – relativa allo scollamento tra l’idea di umano e le dinamiche del mondo in cui viviamo – può essere lo spunto per rivedere due film degli anni ’70/’80 comprendendone l’intelligenza autoriale, altrettanto vero è che non può essere sufficiente appellarsi alle soluzioni artistiche che puntano a ritrovare l’umanità tra gli animali o tra i fenomeni naturali. Forse, di fronte alla barbarie, alla distruzione del pianeta in nome del profitto, alla soppressione di ogni diritto sociale, al genocidio del popolo palestinese, l’unica rivendicazione possibile è quella di un’umanità nell’umanità, ossia della necessità da parte dell’uomo di non arretrare su ciò che lo contraddistingue come essere umano. 


Sembrano lungimiranti le parole che Lupetta, arrestata per essere ricondotta a casa, rivolge al poliziotto che le spiega come in realtà non stia succedendo niente: «Giura! Giura che non succede niente! Giura che non ci sono le sirene e la gente che scappa e i morti! E non dirmi che qui non succede anche se succede dall’altra parte del mondo. Basta un posto solo, uno solo, un giorno solo e io non ti credo più!». Lungimiranti. Come quelle con cui Vittorio Arrigoni terminava ogni suo articolo per Il Manifesto prima di essere ucciso a Gaza quattordici anni fa: «Restiamo umani».


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