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Giurato numero 2 (Juror #2)

2024, 114min.

di Clint Eastwood

con Nicholas Hoult, Toni Collette, J.K. Simmons


Recensione di Giovanni Comazzetto

Spoilerometro:





Rientrando a casa dopo una serata drammatica, in cui ha resistito a fatica al richiamo dell’alcool, Justin Kemp (Nicholas Hoult) si distrae alla guida e urta qualcosa di pesante. Non trovando traccia di ciò che ha colpito, crede che si sia trattato di un cervo e presto dimentica l’accaduto. Un anno dopo, con una figlia in arrivo, è chiamato a fare il giurato in un processo per omicidio: James Sythe (Gabriel Basso) è accusato di aver ucciso la fidanzata Kendall Carter (Francesca Eastwood). Quando apprende i dettagli dell’omicidio, Justin scopre con orrore di essere stato proprio lui, un anno prima, ad uccidere Kendall, investendola quella notte.   

 



 

È un miracolo, vista l’anima confusionaria dell’uomo, che dodici persone riescano a raggiungere un verdetto unanime su un altro uomo: così si esprime un personaggio di Anatomia di un omicidio, celebre legal drama del 1959. Ma mentre quel film si incentrava sul dibattimento e sullo stile “agonistico” del processo, tipico del sistema anglosassone, la pellicola di Eastwood risolve in tempi relativamente brevi la vicenda processuale, interessandosi soprattutto all’elaborazione del verdetto da parte della giuria e al dilemma morale del protagonista. L’istituto della giuria nasce secoli fa per riempire un vuoto, sostituendo gli iudicia Dei (1); ma i giurati del film sembrano tutti ispirati da motivazioni diverse da quella di rendere un verdetto giusto.  

 



 

Tutti hanno fretta di tornare alle loro vite, e danno per scontata la colpevolezza dell’imputato. Ad allungare i tempi della decisione è proprio Justin, che, pur non volendosi costituire, insinua dubbi negli altri giurati al fine di evitare la condanna di un uomo che sa essere innocente. A un esame più attento, la vicenda assume contorni sempre meno netti: l’indagine della polizia è stata sommaria e approssimativa; l’autopsia ha avuto un esito controverso; l’unico testimone oculare si dimostra meno affidabile del previsto.    

 



 

L’ultimo film di Eastwood è un solido (e atipico) legal thriller, in cui ad essere sotto accusa, più che l’imputato o il giurato protagonista, è il modo stesso in cui concepiamo la giustizia. Rappresentata spesso – già nell’immagine che apre il film – come una dea bendata, la Giustizia era in verità raffigurata, in un’iconografia più risalente, come dotata di uno sguardo penetrante: «un occhio che segue il giudizio del Dio supremo che, proprio perché vede tutto, non può che decidere in modo “giusto”» (2). Per contro, l’attributo simbolico della benda sembra portare con sé un’ineliminabile ambiguità: la dea cieca non favorisce nessuno, e valuta allo stesso modo il ricco e il povero; ma è cieca anche la giustizia corrotta o esitante, che non sa più distinguere il bene dal male.   

 

(1) Cfr. Franco Cordero, Procedura penale, Giuffrè, 2012, p. 609.

(2) Anna Simone, Mater Iuris. La rappresentazione della giustizia nella prima modernità, «Parolechiave», giugno 2015, pp. 148-149.

 

 

Voto: 3,5/5

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