1998, 117min.
di Joel e Ethan Coen
con Jeff Bridges, John Goodman, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman
Recensione di Giovanni Comazzetto
Spoilerometro

Leggero e rimosso dalle radici, sospinto dal vento, un cespuglio rotolante lascia le terre aride e polverose che circondano Los Angeles e raggiunge la città: così inizia il cult movie dei Coen del 1998, giustamente ritenuto uno dei vertici della loro eclettica filmografia. Ad innescare una successione di eventi surreali e irresistibilmente grotteschi è uno scambio di persona, per cui
Jeffrey “The Dude” Lebowski (Jeff Bridges), hippie pigro e disoccupato, viene casualmente a conoscenza di un anziano e borioso filantropo, suo omonimo, che lo coinvolge nel tentativo di riavere la giovane moglie (apparentemente rapita). Lo strano incarico sconvolge la vita del protagonista, che ruota intorno al consumo di marijuana («fortunatamente io rispetto un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente flessibile») e alle partite a bowling con gli amici Walter (John Goodman), un irascibile veterano ossessionato dal Vietnam, e Donny (Steve Buscemi), un uomo tranquillo e remissivo, bistrattato in quanto interviene sempre a sproposito.

Il film offre una galleria di personaggi indimenticabili: non solo i due protagonisti – gli straordinari Jeff Bridges e John Goodman –, ma anche l’arrogante Jesus Quintana (John Turturro), talentuoso giocatore di bowling, la spigolosa Maude Lebowski (Julianne Moore), figlia del filantropo dedita alla performance art, e l’impacciato Brandt (Philip Seymour Hoffman), assistente del “ricco” Lebowski. Memorabili sono comunque quasi tutti i personaggi di contorno, dal gruppo di “nichilisti” che minacciano più volte il protagonista, al ricco pornografo Jackie Treehorn (Ben Gazzara), fino all’autore televisivo ingabbiato in un polmone d’acciaio.

Fin dal titolo, che richiama Il grande sonno di Chandler, pietra miliare del genere hard boiled, il film sembra potersi leggere (anche) come un’irridente e geniale reinvenzione dei “canoni” del noir. I principali cliché del genere sono tutti ripresi, ma sottoposti ad un totale rovesciamento in chiave ironica: vi è l’intrigo che dà inizio alla vicenda (l’apparente rapimento di Bunny), il magnate che assolda un improbabile investigatore privato (The Dude, che è l’opposto dell’uomo d’azione chandleriano), le congetture che si diramano in un intrico labirintico di ipotesi strampalate, ricatti e vicoli ciechi (che ruotano intorno ad alcuni oggetti-chiave: il tappeto, la valigetta, il dito mozzato, l’auto rubata), l’incontro con un’improbabile femme fatale (Maude Lebowski), le incomprensioni con la polizia. La rivelazione finale è che nessun rapimento è avvenuto, e che lo stesso magnate che aveva commissionato l’indagine è in realtà un impostore. L’intera vicenda si risolve, per dirla in altro modo, nell’insensato affannarsi intorno a un vuoto. La stessa scelta di inserire la voce fuori campo (quella di un vecchio cowboy che appare a metà del film, e poi nuovamente alla fine) concorre al complessivo effetto di straniamento, in quanto il narratore è tutt’altro che affidabile: perde il filo, fatica a cogliere il significato delle vicende narrate, e appare del tutto old-fashioned («Devi
proprio dirle tutte quelle parolacce?»).

Il gusto dei Coen per il pastiche, il loro raffinato citazionismo, il black humor, le sequenze oniriche, raggiungono qui una più libera e matura consapevolezza. Il fuoco di fila delle battute e le scene di iperbolica violenza non devono comunque far dimenticare che ricorrono anche qui i temi cari ai due cineasti, e che pertanto il film è molto più che una commedia surreale.
Jeffrey e Walter appartengono entrambi alla generazione che ha vissuto le lotte per i diritti civili, la «rivoluzione mancata» e la guerra in Vietnam; tuttavia, mentre il primo sembra riuscire ad adattarsi ad ogni tempo e ad ogni situazione, fluttuando al di sopra delle miserie umane con ironico distacco, l’altro vive prigioniero del passato, sopraffatto dalle proprie ossessioni.
L’unica vittima delle surreali vicende narrate è peraltro il mite e incolpevole Donny, che incarna colui che sempre e comunque subirà il torto e le ingiustizie su questa terra.
Tutt’altro che casuale sembra poi la scelta di collocare le vicende al tempo della Guerra del Golfo. Per quanto sia citata solo un paio di volte nel corso del film, la guerra si staglia sullo sfondo delle sgangherate avventure del protagonista. Non solo è un tema ricorrente nelle discussioni tra Jeffrey e Walter, pacifista l’uno (che in una scena ricorda di essere stato co-autore della Dichiarazione di Port Huron del 1962, manifesto della sinistra studentesca americana), reazionario e guerrafondaio l’altro; ma essa partecipa del generale svuotamento di senso e del crollo dei valori in un mondo sempre più caotico e incomprensibile, rispetto al quale l’unico rifugio è il gioco (il bowling, dove «ci sono delle regole», ricorda Walter), e, forse, il cinema.
Voto: 4.5/5
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