Il sapore della ciliegia (Ta'm-e gilās...)
- traumfabrikblog
- 13 dic 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 8 giu 2023
1997, 95min.
di Abbas Kiarostami
con Homāyun Eršādi e Abdelrahman Bāqiri
Recensione di Laura Caviglia
Spoilerometro:

«Tu sei un contadino? Fai il lavoro del contadino!
Io sarò il concime per quest’albero»
Il Sapore della Ciliegia è un film sul suicidio.
Nelle aride periferie di Teheran strade sterrate disegnano i contorni di spoglie colline di sabbia e polvere, dove orde di manovali cercano di racimolare lavoro o scavano e smuovono la terra per fini non noti. Qui il signor Badi si aggira con la sua auto alla ricerca di qualche volontario disposto, su ricompensa, a seppellire il suo cadavere in una fossa già scavata su una collina.
Le scelte della regia vedono alternarsi primi piani all’interno dell’auto di Badi e panoramiche su ambienti esterni: per citare Emil M. Cioran (Al culmine della disperazione, 1934) «si può essere tristi da qualsiasi parte; ma mentre gli spazi aperti acuiscono la melanconia, di cui la coscienza non sa individuare una causa esterna, quelli chiusi fanno aumentare la tristezza, la quale ha sempre una ragione precisa». Questa medesima soluzione registica era stata utilizzata da Kiarostami in E la vita continua (1992) e permette con pochissimi mezzi di donare allo spettatore contemporaneamente uno spazio intimo per familiarizzare col protagonista ed una veloce sussunzione del paesaggio iraniano e dei personaggi che scorrono attraverso il finestrino dell’auto.


Durante il suo tentato excursus ad inferi Badi incontra diversi personaggi, tra cui un giovanissimo militare, un teologo fedele al Corano ed un naturalista specializzato in tassidermia. Il protagonista meticolosamente si premura di spiegare a ognuno di questi i dettagli del suo seppellimento, ma non prende tempo per motivare il perché della sua sofferenza, poiché questa gli appare incomunicabile.
Nemmeno come spettatori ci ritroviamo ad avere alcun indizio sul movente: l’istinto del protagonista potrebbe non essere riconducibile ad una scelta razionale o a circostanze esterne, quanto piuttosto essere una necessità fisica, come qualsiasi altra forma d’istinto: sempre Emil M. Cioran sostiene che «non c’è una volontà o una decisione razionale di suicidarsi, ma solo cause organiche ed intime che predestinano a un tale gesto […]. Le medesime avversità lasciano certuni indifferenti, segnano altri, e altri ancora portano al suicidio». Il suicidio potrebbe viceversa essere interpretabile come atto di estremo bisogno di autodeterminazione, nel vuoto di volontà di potenza che può affliggere alcune vite: «Se mi uccido, non sarà per distruggermi, ma per ricostituirmi (…). Attraverso il suicidio, reintegro il mio disegno nella natura, do per la prima volta alle cose l’espressione della mia volontà», per citare Antonin Artaud nella raccolta di scritti “Sul suicidio ed altre prose”.
L’unico ad accettare il lavoro commissionato da Badi è paradossalmente la stessa persona che tenta, attraverso uno spassionato monologo sulla vita, di dissuadere il protagonista dal suo intento. Differentemente dai precedenti malcapitati, che si erano rifiutati per timore o per devozione ad una legge, il fulcro del monologo è l’empatia umana che viene eviscerata attraverso i versi di una poesia turca:
«Amore mio, sto prendendo il volo, vieni da me.
Dai passati giorni felici mi sono ritrovato in tempi difficili, vieni da me.
Se tu vai io ti sarò amico, se tu resti io ti sarò amico.
In ogni caso io ti sono amico».
Il film riprende leitmotiv cari a Kiarostami: la ricerca, la realtà umana e paesaggistica dell’Iran, la rottura della finzione tramite escamotage di metacinema, per citarne alcuni. Probabilmente non si tratta della migliore opera del regista, soprattutto per quanto riguarda la fotografia, comunque in gran parte straordinaria. Eppure, forse più di altri lungometraggi dell’iraniano, Il sapore della ciliegia risultò appetibile alle papille esistenzialiste di un occidente autolesionista, valendogli la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1997.

Non sappiamo se il protagonista riesca o meno nell’intento di uccidersi. Il finale, così come in altri film di Kiarostami, è lasciato alla volontà immaginifica dello spettatore, né tantomeno sarebbe stato necessario darne uno definitivo. Il suicidio non viene qui presentato come opzione risolutiva ma come una possibilità necessaria a riconfermare la vita, che per sé stessa trattiene al suo interno sempre una scelta: «Io credo che Dio sia così grande e misericordioso che non costringerebbe forzatamente le sue creature all’esistenza».
Voto: 3.5/5
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