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Paris is burning


1990, 78 min

di Jennie Livingston

con Brooke Xtravaganza, André Christian, Dorian Corey

 

Recensione di Arianna Alessia Armao


Spoilerometro



 



Millenovecentonovanta: una data tonda per le sale, sei gli anni di riprese. Con Paris is burning di Jennie Livingston voliamo nella New York di fine anni Ottanta, per scoprire la scintillante cultura delle ‘ballroom’ e la rete di affetti che animava le famiglie elettive delle ‘house’ statunitensi. Le comunità afroamericana e latina saranno le protagoniste, e ci guideranno dentro un lavoro lento quanto partecipato.

 

Non siamo di fronte il solito lavoro divulgativo ed esotista. Jennie Livingston, regista assente – non la sentiamo parlare né tantomeno respirare – assisté concretamente alla vita delle comunità impresse nello schermo. È così che conosciamo le diverse casate che vedremo danzare e sfilare, come la House of Ninja o la House of Xtravaganza: tutte impegnate a battersi per un trofeo in nome del brivido della competizione, ma soprattutto per vivere l’illusione di essere non solo perfettamente se stesse, ma vere e proprie stelle dello schermo.


Un’immersione nelle correnti dell’ormai celebre voguing, del drag, del cross-dressing, e nella vita di persone che, spesso rifiutate dalle famiglie perché omosessuali o transgender, trovarono nella cultura “ball” la loro possibilità di sopravvivenza. Durante gli anni di riprese non mancarono le vittime dell’epidemia di AIDS o della violenza di genere, ma quello che il film ci restituisce è principalmente l’energia, la leggerezza dei corpi, la possibilità di sovvertire il sistema inventando strutture alternative.

 

Non a caso, parallelamente al successo di pubblico alcune critiche furono spietate: bell hooks, ad esempio, suggerì che il documentario finiva per trasformare una vera e propria sottocultura in uno spettacolo per platee bianche, arrivando a ridurre al minimo lo spazio di denuncia delle atrocità cui molte delle protagoniste avevano dovuto sopravvivere o soccombere (come Venus Xtravaganza, assassinata da un cliente[1]).


Accogliamo allora queste critiche, adottiamo uno sguardo consapevole e godiamoci l’energia “ball” senza appropriarcene o limitarci al mero intrattenimento: dietro quei vestiti ricercati, quei gesti volutamente esagerati quelle coreografie sorprendenti si celano alcune tra le storie più tragiche del nostro mondo di oppressioni. Ricordiamocelo.



[1] “[…] yet there is no mourning of him/her in the film, no intense focus on the sadness of this murder. Having served the purpose of “spectacle”, the film abandons him/her.”, b. hooks, Reel to Real: Race, class and sex at the movies, p.288


Voto: 3/5

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