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Io capitano

2023, 121min.

di Matteo Garrone

con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawadogo


Recensione di Valentina Corona


Spoilerometro:



Seydou e Moussa sono due giovani cugini senegalesi che sognano di potere vivere della propria musica in Europa. Malgrado la ferma opposizione della madre di Seydou, spinti dalla forza del desiderio di realizzare le proprie aspirazioni che anima per definizione ogni ragazzo di questo mondo, Seydoy e Moussa intraprendono di nascosto la traversata già sperimentata dai loro connazionali, alla ricerca del continente che si affaccia sull’altra sponda del Mediterraneo.



Nonostante la scelta di Garrone di mantenere per gli attori protagonisti (Seydou Sarr e Moustapha Fall) il loro nome vero, Io capitano non è un film realista, e rimarrà deluso chi nel lungometraggio ricerchi la drammaticità e l’esattezza del documentario: nella vita reale Seydou e Moustapha non hanno mai vissuto la tratta, e Io capitano è prima di tutto un racconto epico, nel quale l’elemento favolistico di cui – lo abbiamo imparato – è costituita almeno la metà della poetica di Garrone è presentissimo.

Con Io capitano il regista romano si cimenta nel tentativo a oggi inedito di dare voce alla versione africana del viaggio verso l’Europa, senza includere i bianchi in nessuna fase del racconto e senza d’altro canto mitizzare gli africani, che, da personaggi e da esseri umani, fanno ora la parte dei “buoni”, ora dei “cattivi”. E lo fa con studio maniacale, mettendo in piedi un film in wolof, pur non conoscendo la lingua più comunemente parlata in Senegal, grazie alla presenza costante sul set di interpreti e traduttori, a cui la sceneggiatura viene trasposta in francese – sceneggiatura che, invece, agli attori è rivelata solo di giorno in giorno nel corso delle riprese, senza che questi ne conoscano il finale.

La verosimiglianza del racconto “universale” della traversata nel deserto alla volta della Libia, della prigionia nei campi di detenzione libici e del viaggio in mare su un’imbarcazione di fortuna è comunque garantita dal processo di scrittura, intrapreso a partire dai resoconti di cinque ragazzi che hanno effettivamente vissuto la tratta sulla propria pelle, dai quali Garrone trae la sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri.



È intelligentissima la scelta di Garrone di non porre al centro della storia due giovani in fuga dalla disperazione. Il Senegal da cui tutto ha inizio viene infatti descritto come un luogo vivace e genuino, da cui Seydou e Moussa non devono ma vogliono deliberatamente allontanarsi. In questo senso l’opera, sebbene distante dall’intento prettamente realista, non può che mostrarsi nella sua veste politica: in Io capitano, in buona sostanza, viene ribadito il diritto inalienabile di ogni essere umano di migrare alla ricerca della propria personale realizzazione, senza bisogno di giustificazioni di sorta.

Rimane spiazzato lo spettatore che si immagini di sapere che fine farà Seydou una volta sbarcato in Italia. Ma lo sguardo di Garrone si posa solo sul nóstos di questo Odisseo africano e non accontenta il desiderio voyeuristico dell’osservatore occidentale: la storia di Seydou è tutta, interamente africana, e, almeno per il momento, non c’è spazio per il racconto della disperazione che poco più avanti si sostituirà al suo senso di vittoria.




Voto: 3,5/5

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