1942, 88min.
di Orson Welles
con Tim Holt, Joseph Cotten, Dolores Costello, Agnes Moorehead
Recensione di Giovanni Comazzetto.
Spoilerometro:

Lo splendore degli Amberson è destinato a finire: di ciò siamo avvertiti fin dall’inizio. La voce narrante (Orson Welles) ci presenta questo fatto come inevitabile, al pari delle trasformazioni che riguardano la società americana al tempo della seconda rivoluzione industriale. Ineluttabile è quindi il mutamento delle mode e dei costumi; cambia il modo di concepire il tempo, così come il modo di comunicare o il disegno architettonico delle città. Sul giovane George Minafer (Tim Holt), rampollo degli Amberson, incombe il destino di assistere alla rovina della propria famiglia, e di doversi dedicare, suo malgrado, ad una professione – fatti che segnano per lui la perdita dell’innocenza, il passaggio (non richiesto e non voluto) all’età adulta.

Per nulla interessato a dare giudizi su questo o quel personaggio, Welles colloca i drammi familiari degli Amberson sullo sfondo dei mutamenti sociali legati all’invenzione dell’automobile. Poco importa, allora, che George, l’ultimo degli Amberson, sia arrogante e viziato, quasi un antieroe (almeno fino alla “redenzione” finale), e che invece Eugene Morgan (Joseph Cotten), inventore – dunque, in qualche modo, agente proprio di quel progresso che sta distruggendo la famiglia del protagonista –, sia un personaggio giudizioso e magnanimo: quel che conta è che il mondo dorato degli Amberson, un altro Eden destinato a scomparire nell’immaginario del regista, è rapidamente sepolto sotto parcheggi e automobili, insieme all’intera città.

Dei cambiamenti avvenuti si avvede all’improvviso il protagonista quando, verso la fine del film, fa un’ultima volta ritorno a casa, prima di doverla abbandonare, oppresso dai debiti. L’impressione che ha, dice la voce narrante, è di camminare per le strade di una città sconosciuta. La scena successiva, quella in cui George chiede perdono alla madre defunta – della quale ha in un certo senso provocato la malattia, impedendole di risposarsi – è forse la più toccante del film, insieme al momento in cui l’anziano Maggiore Amberson (Richard Bennett) contempla la propria morte, seduto accanto al fuoco, circondato da parenti che parlano d’altro, inconsapevoli della sua vicenda interiore.

Uscito nelle sale nell’agosto del 1942, il lungometraggio è accolto più freddamente rispetto a Citizen Kane, e risente dei pesanti tagli apportati al montaggio originale di Welles (che era di 132 minuti, ridotti a 88 nella versione definitiva). A convincere di meno è, forse, il “lieto fine” posticcio: nel finale originale (andato perduto) la riconciliazione tra George e Lucy avveniva fuori campo, e il film terminava in diminuendo, con una scena in cui Morgan va a trovare la zia di George, Fanny (Agnes Moorehead), ridotta in povertà e confinata in una modesta pensione – scena il cui senso è così riassunto dal regista: «finisce la comunicazione tra le persone come finisce un’epoca» (1).
Un finale indigesto per gli spettatori del tempo, e forse anche per quelli odierni.
(1) P. Bogdanovich, Il cinema secondo Orson Welles, il Saggiatore (2016).
Voto: 4/5
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