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L'orto americano

  • traumfabrikblog
  • 20 mar
  • Tempo di lettura: 3 min

2024, 107min.

di Pupi Avati

con Filippo Scotti, Rita Tushingham, Roberto De Francesco


Recensione di Mauro Azzolini



Spoilerometro:




Gotico padano. È questa la definizione migliore tra quelle coniate per etichettare l’ultimo film di Pupi Avati. Un film apparentemente semplice, giocato sulla sovrapposizione di amori impossibili, disagi psichici e misteri irrisolti, ma che in realtà nasconde una riflessione più profonda sul fare cinema in un determinato luogo e in un determinato momento storico. 


Al centro del racconto c’è un giovane scrittore del quale non conosciamo il nome. Ad interpretarlo è Filippo Scotti, volto lanciato da Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio (2021) i cui lineamenti sembrano naturalmente predisposti per la resa di questo ragazzo degli anni Quaranta coraggioso e sognatore, impacciato e deciso allo stesso tempo. È lui ad incrociare per qualche istante l’immagine di una donna americana in cerca di informazioni. Si tratta di un’infermiera del contingente statunitense in quel momento (il 1945) presente a Bologna così come sulla maggior parte del territorio italiano. Basta quel rapidissimo scambio a fare scattare l’infatuamento del ragazzo.





Dopo qualche mese, il giovane scrittore, grazie ad un couchsurfing ante litteram, si trasferisce negli Stati Uniti alla ricerca dell’ispirazione per il suo nuovo romanzo. La cittadina in cui si trova è Davenport, nell’Iowa, luogo scelto da Pupi Avati già per l’ambientazione e le riprese di un altro titolo della sua filmografia del mistero (Il nascondiglio, 2007). Il protagonista entra in contatto con la storia dell’inquietante sparizione di una ragazza che rapidamente si scopre essere quella incrociata in Italia poco tempo prima. Parte da questo momento la porzione più ampia del racconto, dedicata alla ricerca ossessiva di questa donna, nel corso della quale il ragazzo – nel frattempo tornato in Emilia – incrocerà enigmi letterari e sanguinosi omicidi.





Il punto di fuga, ossia lo spazio verso il quale psicologicamente e materialmente le diverse tracce disseminate durante la narrazione sembrano convergere, è rappresentato da un luogo. Una costruzione immersa nel nulla nel punto in cui l’acqua dolce incontra quella salata. Siamo dunque in provincia di Ferrara, dove il corso del Po termina nel mar Adriatico. Un non-luogo a dire il vero, il cui valore metaforico è prima di tutto legato alla dimensione cinematografica grazie alla capacità di essere al contempo spazio della mescolanza (le acque come i generi horror, thriller, noir) in cui nulla è del tutto definibile ma ogni cosa è interamente percepibile nella sua natura. 


Questo fabbricato avvolto dalla nebbia potrebbe tranquillamente essere quello de La casa dalle finestre che ridono (1976), capolavoro refrattario alle etichettature con il quale un Pupi Avati trentaduenne aveva mostrato la strada per un cinema in cui l’inquietudine fosse determinata non dal testo della storia, quanto piuttosto dal contesto. 





È qui che torna in gioco la definizione iniziale, in particolare per quanto concerne la collocazione geografica. La genialità di Avati sta, infatti, nell’aver saputo sfruttare l’alone di mistero di alcune zone della Pianura Padana per farne l’ambientazione ideale di una storia in cui ciò che accade appare inscindibile dal luogo in cui accade. La Bassa ferrarese diventa la Louisiana della prima stagione di True detective, con i suoi arcani, le sue ombre, la sua crudeltà e lo spazio stesso si trasforma in ostacolo per la ricerca della verità.


Bisogna forse partire da questa constatazione per comprendere il significato de L’orto americano. La pianura nebbiosa dell’immediato dopoguerra, dove non c’è differenza tra la crudeltà privata di un mostro e quella pubblica delle neonate istituzioni, può rappresentare una metafora dell’Italia dei nostri giorni: un luogo in cui produrre arte (una forma come un’altra di ricerca della verità) è diventato sempre più complesso. Non è un caso che lo stesso Avati sia recentemente saltato agli onori delle cronache per essere intervenuto del dibattito sul rapporto tra Stato e Cinema, proponendo la creazione di uno specifico ministero. 


Al netto dei punti di contatto con la realtà odierna e degli spunti di riflessione che è in grado di attivare, il film è anche soprattutto un’opera concreta. Ed è in questa concretezza che si misurano i suoi punti di forza, come il magnifico bianco e nero à la Dreyer curato da Cesare Bastelli o l’interpretazione di Roberto De Francesco, ma anche le debolezze. Proprio in virtù del valore attribuito alla messa in scena, la sceneggiatura tratta dal romanzo omonimo dello stesso Avati, in alcuni momenti sembra arrancare. Il risultato è un racconto non perfettamente bilanciato che ha come prima vittima il ritmo. Menzione speciale, in chiusura, per le musiche di Stefano Arnaldi.



Voto: 3,5/5


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