1994, 92min.
di James Gray
con Tim Roth, Edward Furlong, Vanessa Redgrave
Recensione di Luca La Russa
Spoilerometro:

L’esordio cinematografico di James Gray, regista americano di origini russo-ebraiche, è un noir moderno ambientato in una fredda e innevata New York, in particolare nel quartiere citato nel titolo, popolato soprattutto da ebrei immigrati dal vecchio continente. Gli elementi tipici del genere sono più che riconoscibili: omicidi a sangue freddo, vendette fra gangster, frasi lapidarie e una quantità notevole di sigarette. Si potrebbe quindi pensare che l’autore si voglia muovere su un terreno già molto battuto dal grande cinema americano dei decenni precedenti, considerando i temi della criminalità organizzata e soprattutto della tensione sociale, in particolare tra le minoranze negli Usa (l’approccio alla materia bio-etnografica rimanda alle opere di Scorsese o Cimino), ma ci si accorge presto che l’intenzione del giovane Gray, che firma anche la sceneggiatura, è di raccontare prima di tutto il grande dramma che coinvolge i protagonisti: il giovane Reuben, dilaniato tra la tensione crescente col padre e l’angoscia per la malattia della madre in fin di vita, prova ad affermarsi entrando nel pericoloso mondo del fratello maggiore Joshua, killer a pagamento rinnegato dal padre anni prima.

Il ritorno improvviso del sicario nel quartiere funge da motore per la narrazione, che va assumendo toni decisamente più intimisti, a discapito dell’azione e degli altri stilemi del genere che ci aspetteremmo.
Un’operazione di questo tipo risulta riuscitissima grazie alla raffinatezza delle scelte del regista, che, nonostante sia al suo debutto, è in grado di calibrare notevolmente la presenza nel gangster movie di questa vocazione più “europea”, con soluzioni estetiche mai sopra le righe in cui i dettagli sono strettamente connessi al senso del racconto.

A prova di ciò è interessante infatti come una delle scene più memorabili sia quella dello scontro tra i figli e il padre nel contesto domestico, in cui la camera a mano viene usata per sottolinearne l’impatto, suggerendo l’idea di una possibile soggettiva di un osservatore-ospite che aggiunge credibilità alla rappresentazione.
Detto ciò, ovviamente il cast eccellente (con un glaciale Tim Roth nel suo periodo d’oro) non fa che contribuire alla solidità della realizzazione dell’opera, che colpisce la critica e fa guadagnare all’allora venticinquenne Gray il leone d’argento all’edizione del 1994 del festival di Venezia.
Voto: 4/5
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