top of page

Lo zio di Brooklyn

1995, 93min.

di Daniele Ciprì e Franco Maresco

con Salvatore Gattuso, Giuseppe Di Stefano, Pippo Agusta, Natale Lauria


Recensione di Mauro Azzolini


Spoilerometro:



Ci sono esordi capaci di lasciare il segno e di marcare chiaramente un prima e un dopo nella storia del cinema. È il caso di Quentin Tarantino con Le iene (1992), di Luchino Visconti con Ossessione (1943) o ancora di Sergej Ejzenstejn con Sciopero! (1924).

Il primo lavoro cinematografico di Daniele Ciprì e Franco Maresco non si differenzia molto, per impatto e conseguenze, da quelli appena elencati.


La vicenda attorno alla quale sembra ruotare il film è piuttosto banale: a tre fratelli, dopo la morte del padre, viene chiesto da due nani mafiosi di ospitare per un lasso di tempo non specificato un misterioso personaggio che viene dall’America. Tutto si svolge correttamente finché, durante un’invasione di cani randagi che coinvolge la città costringendo gli abitanti a rimanere barricati in casa, l’uomo (chiamato solamente ‘u zio) scompare.



Come è facile immaginare, nell’economia dell’operazione portata avanti dai due registi, la trama rappresenta soltanto un pretesto per poter mettere in scena luoghi e personaggi che avevano già segnato la loro cifra stilistica negli anni televisivi di Cinico TV. L’intera pellicola è, infatti, popolata da uomini ripugnanti che si muovono in spazi desolati, spinti da bisogni immediati che facilmente si trasformano in ossessioni, manie e devianze. Se non vi fosse la consapevolezza – esplicitata nelle battute iniziali – che quanto si sta osservando è effettivamente collocato a Palermo, si potrebbe tranquillamente immaginare di trovarsi tra le pieghe di un racconto di fantascienza di ambientazione post-apocalittica.


Sono due, però, i livelli simbolici su cui si articola questo lungometraggio: da un lato quello del testo, ossia della storia pensata e sceneggiata; dall’altro quello del contesto, lo sfondo generale che rende comprensibile l’azione rappresentata. Entrambi entrano in dialogo diretto con la realtà e collocano Ciprì e Maresco su un confine netto, quello tra la fiducia nel cinema come strumento di critica sociale e la disillusione completa rispetto ad ogni possibilità di trasformazione del mondo.



Il primo livello è rappresentato dalla scelta di collocare una storia di mafia all’interno dei binari del grottesco. L’idea non sembra originale e di satira sulla malavita siciliana ne avevano già fatta in tanti (su tutti, forse, Franchi e Ingrassia). A differenza della semplice commedia basata sui “tipi” mafiosi e sulle loro collocazioni, i registi palermitani scelgono di mettere in scena la brutalità tanto reale quanto ridicola degli uomini di Cosa Nostra. I mafiosi de Lo zio di Brooklyn hanno modi intimidatori e violenti, ma sono anche esseri umani a volte narcisisti, a volte semplicemente squallidi, il più delle volte ridicoli (una tendenza che saprà cogliere in modo geniale qualche anno dopo Roberta Torre con Tano da morire).


Lo sfondo, dipinto allegoricamente attraverso le vicende insensate di creature portate al grado zero della loro umanità, punta invece a dare significato a ciò che lo spettatore si trova davanti agli occhi. La Palermo degradata di Brancaccio e della foce dell’Oreto è la stessa città che in quegli anni sta vivendo un momento di liberazione e straordinaria apertura al mondo, di modernizzazione e contaminazione culturale. La critica spietata portata avanti dai due registi sembra sottolineare, in un certo senso, questa dialettica mostrando, attraverso il filtro cinematografico, la sopravvivenza di uno spazio drammaticamente ferino, immutato nel tempo, con il quale non è possibile alcuna forma di interazione.



È questa constatazione, questa impossibilità di interazione, a determinare la sconfitta di ogni ipotesi progressista e di ogni fiducia nell’arte come strumento di lotta sociale. L’universo di Ciprì e Maresco è un universo chiuso e arcaico (talmente chiuso e talmente arcaico che non c’è spazio nemmeno per le donne) che vuole testimoniare la sconfitta della modernità ottimista.

Una lettura che in modo, appunto, “cinico” scommette solo sulla pars destruens, rifiutando ogni logica costruttiva.


 

Voto: 3.5/5

 

Comments


bottom of page