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Paterson

2016; 113min

di Jim Jarmusch

Con Adam Driver, Golshifteh Farahani, Barry Shabaka Henley


Recensione di Laura Caviglia


Spoilerometro:



Ciò che ci rende quasi inevitabilmente persone ridicole è la serietà con cui trattiamo ogni volta il presente, che reca in sé una necessaria parvenza di importanza. Soltanto pochi grandi spiriti hanno superato tale parvenza e da persone ridicole sono diventate persone ridenti.

Arthur Schopenhauer



Paterson è un autista qualunque alla guida di un autobus qualunque nella città di Paterson, New Jersey. La sua vita è fatta da una sveglia che suona sempre allo stesso orario, un taccuino aperto prima di ogni corsa e prontamente richiuso al richiamo del superiore, una spassionata indole a porre attenzione alle coincidenze che si ripetono in un mondo sempre uguale. Ogni sera porta a spasso il cane, ogni sera beve nello stesso pub, ogni notte dorme al fianco di una dolcissima e bellissima compagna. Il tutto è cadenzato da una percezione sensibile del reale sopraelevata: Paterson filtra il mondo attraverso il tessuto a maglie sottilissime della poesia.



Il film è volutamente lento e monotono, e la regia ne asseconda il ritmo attraverso l’utilizzo delle medesime inquadrature al ripetersi dei momenti che ogni giorno descrivono una vita incapace di trovare definitivamente una via d’uscita da sé stessa, neanche nella tenerezza dell’amore che viene presentato allo spettatore.



Gli eventi fuori dall’ordinario, che viene lasciato solo intendere potrebbero accadere, di fatto non è detto che accadano. Gli unici momenti che permettono di uscire dalla banalità della routine sono quelli in cui Paterson scrive. Ma il protagonista non sembra essere interessato a condividere col mondo la poesia che riesce a sviscerare dalla quotidianità. Questa scelta, che appare il fulcro della narrazione, non è esplicitamente motivata, anzi: si lascia che lo spettatore possa immedesimarsi nella non azione, nella non comunicazione, senza darne un’analisi che le relegherebbero esclusivamente alla psicologia del personaggio principale.



Il regista e filosofo francese Guy Debord, strizzando l’occhio ad Erich Fromm, descriveva la società contemporanea come un’organizzazione fondata sulla modalità dell’apparire piuttosto che su quella dell’essere. L’apparire è l’episteme del nostro tempo, in grado di assorbire qualsiasi forma di dissenso interiorizzandolo e riconvertendolo a proprio favore. L’unica forma di opposizione alla società dell’apparire è il silenzio. Debord si augurava, compiacendosene, che i suoi commentari ottenessero uno scarso successo.

Allo stesso modo quella di Paterson è una forma non dichiarata e pacata di anarchia Zen: rifiuto il fatto di dover dimostrare a me stesso e agli altri che la mia vita ha un valore e un senso che vanno al di là della trama di eterni ritorni del quotidiano in cui, per qualche motivo che neanche indago, sono imbrigliato come essere umano.


L’ansia occidentale di dover riscattare la propria vita, sacrificata a routine e mediocrità, attraverso il raggiungimento della fama o del più banale riconoscimento sociale, conduce solo ad una forma fasulla di redenzione. Questa corsa al riscatto è anzi una forma di affanno esistenziale estremamente correlata allo stesso ingranaggio che potrebbe tenerti seduto sul sedile di un autobus per otto o nove ore al giorno. L’inganno del “sogno americano” è così svelato.


Nel film la bellezza viene contemplata esclusivamente per sé stessa, ed essa, in qualche modo, risiede nelle piccole circostanze della vita di ogni giorno. La bellezza risiede nella mediocrità di un amore tanto semplice quanto necessario, tacitamente permeato di velati compromessi e speranze ingenue. Risiede nei brevi dialoghi degli sconosciuti in viaggio, nella schiuma della birra di ogni sera o nel tuo poeta preferito.

La trama presenta un solo punto di rottura a cui sembrerebbe seguire il ristabilirsi di un equilibrio che, tuttavia, in nessun modo è lasciato intendere possa essere differente da quanto narrato prima.


Non vi è desiderio di riscatto né di riconoscimento sociale alcuno dietro la necessità e l’indole naturale del protagonista di fermare il tempo, continuo e sempre uguale a sé stesso, attraverso la poesia.


Io non esisto, io sono un autista qualunque di una cittadina qualunque ed ogni giorno da sempre e per sempre conduco una vita qualunque.




Voto: 4/5


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