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The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun

2021, 108min.

di Wes Anderson

con Bill Murray, Tilda Swinton, Frances McDormand, Jeffrey Wright


Recensione di Mauro Azzolini


Spoilerometro:



Esiste al cinema qualcosa di più insopportabile della monotona ripetizione degli stessi clichés? Probabilmente no. Ma se questi elementi hanno le forme e i colori pastello di un’enorme casa delle bambole è probabile che l’esperienza estetica sia in grado di cancellare, per qualche ora, la sensazione di insofferenza. È quello che succede, puntualmente, di fronte a un film di Wes Anderson.

Se fino a ora, però, i contrasti su cui prendeva forma il suo cinema interessavano soltanto la costruzione dell’immagine, in una dialettica tra naturale e innaturale sfruttata per indicare come il trionfo della razionalità fosse qualcosa di profondamente artificioso, adesso la posta in gioco è più alta perché il regista sceglie di mostrare le ragioni di questa scelta.



Davanti agli occhi dello spettatore non c’è più soltanto lo scontro nella vita quotidiana tra ordine e disordine, tra equilibrio e caos (per dirla schematicamente: inquadrature all’apice della perfezione abitate da individui all’apice dell’imperfezione), adesso il terreno è quello della scrittura, ossia lo strumento per eccellenza di cui dispone l’uomo per descrivere, organizzare, mettere ordine. Lo scontro è tra oggettività e soggettività e a farne le spese è, sorprendentemente, la prima.

La trama del film segue l’indice della rivista di cui racconta le vicende: un breve cappello presenta la cittadina di Ennui-sur-Blasé in cui si svolgono gli eventi; seguono tre lunghi articoli dedicati ad arte, politica e cucina; chiude la pagina dei necrologi. La cornice è quella della redazione di una longeva rivista americana in terra francese il cui direttore-fondatore revisiona i testi dei redattori, stabilisce la struttura del numero e, come sappiamo dalle primissime battute, muore.



I tre lunghi episodi centrali sviluppano, ognuno a proprio modo, i contrasti tra realtà e finzione. Nel primo un pittore rinchiuso in un manicomio criminale conquista la fama internazionale grazie a un investitore la cui spregiudicatezza svela l’impostura che si cela dietro il business dell’arte contemporanea; nel secondo la contestazione giovanile, il cui punto massimo è rappresentato da una partita a scacchi a distanza tra il leader degli studenti e il sindaco, non è altro che la manifestazione plastica di un narcisismo esasperato e spericolato; nel terzo, infine, un cuoco risulta determinante nell’operazione messa in campo per recuperare il figlio del capo della polizia rapito da una banda di improbabili malviventi.

Gli autori dei tre articoli sono anche narratori interni dei tre episodi, ed è la loro voce – ossia la lettura fuori campo del testo – a descrivere quello che succede sullo schermo. Il meccanismo è ovviamente quello del ‘racconto nel racconto’, ma il senso dell’operazione sembra coinvolgere un piano più ampio di quello istintivamente identificabile.



La natura di ciò che si vede al cinema, sembra dire Anderson, altro non è che il prodotto di una sceneggiatura, ossia di un lavoro di scrittura e l’incapacità mostrata dai giornalisti del French Dispatch nel descrivere la realtà, nel rappresentarla in modo oggettivo è la stessa incapacità che il regista attribuisce al mezzo cinematografico: l’immagine è finzione.

Ecco allora che, finalmente, si riempiono di senso le stupende scenografie marchio di fabbrica del regista, i suoi carrelli, le sue prospettive impossibili. Così come, a livello narrativo, assumono significato, nella costruzione di un ‘film scritto’, gli infiniti incisi, le parentesi, le digressioni scandite da una colonna sonora che usa le battute della macchina da scrivere come metronomo.

Se il cinema è finzione, insomma, come nel sogno del più estroso fra gli ossessivo-compulsivi tanto vale ridisegnare il mondo in modo simmetrico e colorato.



 

Voto: 3.5/ 5

 

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