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Possession

1981, 123min.

di Andrzej Żuławski

con Isabelle Adjani e Sam Neil


Recensione di Laura Caviglia


Spoilerometro:



Nel saggio Unheimlich del 1919 Sigmund Freud ricostruisce il significato di un concetto estetico che potrebbe essere reso con l’italiano “perturbante”. «Il perturbante» afferma «è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare […]» e ancora «Umheimlich , dice Schelling, è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato […]» (1).

Nel saggio lo psicologo accusa la filosofia estetica di aver trascurato questi aspetti del senso estetico, per dedicarsi esclusivamente all’analisi del bello, ed elenca alcuni fenomeni noti per instillare nell’uomo il senso del perturbante: il trovarsi al cospetto di un sosia, gli attacchi epilettici e le manifestazioni di pazzia, la ripetizione meccanica involontaria.

Possession è propriamente un’opera che dà forma al senso del perturbante.


Nella Berlino del dopoguerra una coppia di sposi appare dilaniata dalla rottura del rapporto, dovuta essenzialmente ad un malessere che nasce in seno alla protagonista, Anna. Questa rottura si concretizza in violenti scontri tra i due partner, nel corso dei quali autolesionismo e manifestazioni psicotiche lasceranno spazio al paranormale.



Il fulcro del lungometraggio, che permette di comprenderne a pieno la trama, è da ricercarsi in un monologo in cui Anna prova a dare spiegazione in modo esplicito della propria lacerazione esistenziale: «È come se in me ci fossero due sorelle: la Fede e il Caso. E il Caso non può spiegare la fede ma la mia fede non mi permette di subire al Caso».

A questa dichiarazione segue la magistrale scena della trance nevrotica della protagonista all’interno della metropolitana. Secondo la teoria generale della trance quest’ultima è una sintesi tra stato psicologico e rituale, in cui lo stato psicologico di base è la dissociazione. Nella trance di possessione la dissociazione si esplica con lo sdoppiamento persona-corpo/corpo, una seconda personalità emerge dal rituale e serve da supporto psicologico alla danza (2).

Stando all’antropologo Rouget, poi, la trance di possessione implica una perdita del sé, una invasione della coscienza da parte di un doppio ed una resurrezione nell’altro da sé (3).

Sulla base di questa interpretazione, possiamo immaginare che durante le angoscianti ed epilettiche scene della metropolitana Anna abortirà la Fede e darà completo spazio al Caso, risanando la lacerazione.



Il prodotto della completa accettazione del caos da parte della protagonista si svilupperà gradualmente in una creatura mostruosa, in parte piovra e in parte antropomorfa, che Anna si premurerà di accudire ed accrescere. Il latino “monstrum” ha la stessa radice del verbo “monere”, “ammonire”, e si riferisce ad un evento soprannaturale che è segno della volontà degli Dei (4). Si tenga conto pure del fatto che nel trattato “Sulle parti degli animali” Aristotele esamina le parti del corpo animale per spiegarne le funzionalità, affermando che ogni corpo animale è materia organizzata che custodisce un principio psichico e la forma organizza la materia.

La struttura morfologica della piovra appare però ridondante, piuttosto priva dell’intelligenza della forma. È per questo che Victor Hugo descrive la piovra come «una vera blasfemia della creazione contro stessa”, mentre il poeta Lautréamont parla della piovra come «l’esatto contrario dell’idea di Dio».

Proprio con tale nemesi del divino Anna si accoppierà nell’unica scena in cui la donna sembra finalmente raggiungere la pacificazione spirituale e carnale.


Nello scorrere della trama la regia di Żuławski risulta fondamentale ai fini della sua comprensione. L’angoscia e la nevrosi di moltissime scene sono amplificate da angolazioni di ripresa vertiginose, a piombo, contro-piombo e da primi-piani che sembrano voler rompere la quarta parete per comunicare direttamente con lo spettatore.

Con questo capolavoro dell’horror il regista polacco mette in scena l’estetica del male, della psicosi, del perturbante, mostrandoci come l’arte cinematografica possa dare forma, con poche immagini, a tutte quelle qualità del sentire che la filosofia estetica nel corso dei secoli ha probabilmente scelto di ignorare.

(1) Sigmund Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri 1991.

(2) http://www.dadarivista.com/Singoli-articoli/2013-giugno/1.pdf

(3) https://www.doppiozero.com/materiali/gilbert-rouget-e-i-fenomeni-di-possessione

(4) http://hdl.handle.net/10077/5151


 

Voto: 5/5

 


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