1989, 71min.
di Shinya Tsukamoto
con Shinya Tsukamoto, Tomorowo Taguchi, Kej Fujimara
Recensione di Luca La Russa
Spoilerometro:

Fin dalle primissime orripilanti sequenze, l’esordio del cineasta giapponese Tsukamoto segna chiaramente le coordinate del terreno che intende esplorare, ovvero l’inquietante tematica della contaminazione e della mutazione del corpo umano, inserendosi inevitabilmente, come diversi esempi di pellicole dello stesso periodo (La Mosca, Robocop), in un filone della fantascienza che predilige elementi del cyberpunk ma soprattutto del cosiddetto “body horror”. Vediamo infatti, all’inizio del film, un uomo intento a inserire componenti metalliche all’interno dei propri arti in uno strano esperimento che sembra non andare a buon fine, poiché in seguito a una sorta di rigetto dell’organismo questi si ritrova terrorizzato a vagare per la strada; qui viene investito dalla macchina di un comune impiegato. Quest’ultimo, con la complicità della propria partner, decide di abbandonare il corpo dell’investito e tornato alla vita di tutti i giorni viene sconvolto dalla scoperta di una sorta di condensatore che fuoriesce dal suo viso, mentre è intento a radersi allo specchio. Ma è solo l’inizio di una progressiva trasformazione che, proprio come una malattia che peggiora inesorabilmente, lo porta a diventare un mostruoso essere biomeccanico coinvolto in terribili episodi di violenza (come quello in cui in un macabro atto sessuale uccide proprio la fidanzata) che assumono la forma di deliri in cui il confine tra fatti e possibili allucinazioni è sempre meno definito.

La lettura in chiave metaforica della mutazione in cyborg da parte del dipendente salariato è pressoché inevitabile: è fin troppo palese la riflessione sulla meccanizzazione della vita quotidiana o sull’alienazione capitalistica, ma tale analisi può risultare troppo riduttiva per questo divisivo cult orientale. L’intento dell’abile regista (qui anche interprete nonché direttore della fotografia) è infatti, prima di tutto, creare un'esperienza visiva e sonora disturbante, che solletichi l’inconscio e si insinui nel territorio delle pulsioni e delle perversioni, da tempo scandagliato dalla psicanalisi e dagli artisti da essa influenzati. Il bianco e nero e alcuni orrorifici artifizi, ad esempio, non possono non fare pensare al Lynch di Eraserhead ma anche ad alcune sequenze del cinema surrealista ed espressionista di moltissimi decenni prima; complice forse la scarsa densità di dialoghi e il grande spazio dato alla colonna sonora, la quale dà ulteriore ritmo a un frenetico montaggio finalizzato ad accentuare la sempre più veloce ed irreparabile mutazione del protagonista, vittima di una sorta di tumore le cui metastasi si manifestano in un orribile quanto affascinante (per gli estimatori di certo genere) mix di carne, cavi elettrici e pistoni fumanti, dal quale lo stesso spettatore sembra non riuscire a districarsi.

Forse non semplice da metabolizzare, Tetsuo non può sicuramente lasciare indifferenti, specie per chi guarda al cinema non solo per assistere a un racconto, ma soprattutto per provare ad avvicinarsi, grazie ad autori coraggiosi, alla materia di cui sono fatti i sogni o, in questo caso, gli incubi.
Voto: 3.5/5
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