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The Lighthouse

2019, 110min.

Di Robert Eggers

Con Willem Dafoe e Robert Pattinson


Recensione di Laura Caviglia


Spoilerometro:



«Se dovesse la pallida morte, con terribile voce soprana, fare delle grotte dell’oceano il nostro letto, possa Dio, ascoltando lo scorrere delle onde, degnarsi di salvare la nostra anima supplichevole».

Questa la preghiera recitata prima di ogni cena dal guardiano del faro Thomas Wake, uno sgradevole lupo di mare alcolizzato, il cui dialetto è stato ricostruito sulla base dei gerghi marinareschi di fine ‘800. Dall’altra parte del tavolo siede Thomas Howard, un boscaiolo ritrovatosi sull’isola per lavorare come assistente del vecchio guardiano. Sono gli unici personaggi di un horror psicologico che si sviluppa tra allucinazioni, paranoia e malvagità umana. Si tratta del secondo lavoro del regista Robert Eggers, che aveva già attirato l’attenzione della critica e del pubblico con il precedente The Witch.

La trama di The Lighthouse è volutamente ispirata a Il Tempio di Lovecraft, racconto breve in cui i membri dell’equipaggio di un sottomarino vengono a contatto con una luce negli abissi e lentamente perdono la ragione. Qui, invece, i due personaggi sono costretti a convivere nell’ambientazione claustrofobica e ostile di un’isola dispersa nell’oceano, nella crescente minaccia del mare in tempesta, talmente pressante che lo stesso spettatore riesce a percepirsi fradicio di salsedine. Nella dinamica servo-padrone che si stabilisce tra i due guardiani, gli unici momenti di convivialità ed intimità sono concessi dalle fortissime sbronze durante le quali i protagonisti scaricano tutta la frustrazione in canti marinareschi e danze quasi tribali. Entrambi i personaggi sono perennemente ossessionati dalla luce del faro.


ll faro acquisisce infatti già dalle prime scene una valenza non esclusivamente di spazio fisico: si tratta di uno spazio evocativo, un’entità animale che nella violenza e nell’isolamento della distesa oceanica respira in attesa. Le inquadrature iniziali introducono ad un contesto pregno di un orrore ignoto ma invadente. L’assordante lamento del nautofono, unitamente agli archi che ricoprono le più basse bande di frequenza, è indiscusso protagonista per i primi dieci minuti del film. Per rendere al meglio la cupezza del contesto, ma anche l’ambientazione ottocentesca, tutta la fotografia, curata da Jarin Blaschke, è basata sul contrasto luce-penombra, come un quadro caravaggesco reso in bianco e nero. Un bianco e nero che non è frutto di post-produzione, dato che Blaschke ha scelto di utilizzare la pellicola Kodak Double-X 5222 - la stessa, per intenderci, usata in Schindler’s List di Spielberg.


Potrebbe esserci un filo conduttore nella simbologia marinaresca ed epica del film: la luce è generalmente associata all’idea della conoscenza, della ragione, del bene e del sacro. In questo film però né la luce né qualsiasi altra metafora possa ricollegarsi all’idea della consapevolezza hanno una connotazione positiva. Il parallelismo con Prometeo, che rubò il fuoco agli dei, è dispiegato in un breve ma inquietante frame. Le sirene, d’altra parte, metafora di una forza assurdamente attraente ma ugualmente ripugnante, nell’Odissea ingannano i marinai con la promessa della conoscenza. Per questo Ulisse si sarebbe fatto incatenare all’albero maestro, ma riservandosi la possibilità di ascoltare. Il faro, che guida i marinai nelle notti di navigazione, qui diventa ossessione e potenza demoniaca.



Tale ribaltamento nella simbologia della luce si spiega facilmente considerando che, in questa storia, la consapevolezza non porta a nulla di buono, perché la realtà è nera. Nell’escalation di violenza psicologica che contraddistingue il film, la realtà sarà dispiegata e condurrà Howard, nero di pece, contro il bianco assoluto della luce accecante che lo investe e ne mangia i tratti, a vedere ciò che egli stesso è. Saranno infine le sue stesse risate a trasformarsi nello straziante e distorto richiamo del nautofono.


 

Voto: 4/5

 




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