2023, 179min.
di Ari Aster
con Joaquin Phoenix, Patti LuPone, Stephen McKinley Henderson
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

Beau Wesserman è un uomo di mezza età che convive con un disagio psichico piuttosto accentuato. Lo spettatore lo vede, per la prima volta, nello studio in cui si svolge la terapia con il suo psicanalista e proprio all’interno di questo spazio viene a conoscenza dell’elemento che costituirà il motore dell’azione: Beau è sul punto di partire per andare a trovare la madre che non vede da molto tempo. Fuori dalle mura accoglienti e protettive dello studio regna, però, il caos. In città la gente muore di fame, di droga o assassinata senza ragione e i corpi vengono lasciati marcire sull’asfalto mentre intorno, chi sopravvive lo fa sperimentando ogni tipo di eccesso e di violenza.
Con queste premesse e in questo contesto prende avvio il cammino di Beau. Un viaggio sorprendentemente lungo e costellato di inciampi, rallentamenti e sofferenze di volta in volta crescenti, la cui natura appare chiara se letta alla luce della sequenza con cui Aster sceglie di aprire il film. L’inizio della pellicola mostra, infatti, un parto in soggettiva offrendo, come punto di osservazione “impossibile” sull’evento, lo sguardo del bambino che viene al mondo. Questa faticosa emersione, con il suo portato di sofferenza plurale, sembra essere il trauma fondativo del protagonista: l’atto di mettersi in cammino per andare a trovare la madre è dunque un ritornare “alla” madre, ossia un tentativo di ricucire quella separazione che la mente ha elaborato come definitoria del rapporto con il mondo facendone discendere mancanze, blocchi e soprattutto paure.

Sono proprio le paure a dare forma al nostos di questo adulto incapace di rielaborare la propria infanzia. Alcune vengono dal profondo e sono riconducibili al complicato rapporto col femminile; altre sono il frutto di un mondo in cui il venire meno della dimensione etica ha avuto come risultato la sparizione, da un momento all’altro, di ogni logica comportamentale, di ogni razionalità emotiva. Il viaggio diventa allora un grande incubo all’interno del quale trovano spazio una dopo l’altra tutte le fobie che possono occupare la mente umana. Tutte portate alle estreme conseguenze e tutte accomunate dal riferimento più o meno esplicito al senso di colpa di Beau.
Un senso di colpa che non trova soluzione e che anche quando sembra essere prossimo a reperirla finisce per tramortire ulteriormente il protagonista esponendolo ad un giudizio perentorio e impietoso. D’altronde chi conosce Aster lo sa: come dimostrano le parabole oscure di Hereditary (2018) e Midsommar (2019) non c’è possibilità di vittoria nella lotta contro la sofferenza; ci si può solamente limitare a comprenderla e ad accoglierla nella propria vita, accettandola in quanto condizione strutturale e facendone un punto di forza. La sconfitta di Beau risiede proprio nell’incapacità di giungere a tale visione, ed è dunque con l’obiettivo di rendere tangibile questa inadeguatezza che bisogna provare ad indagare i diversi spunti che il film mette a disposizione attraverso la sua sconvolgente parata di angosce.

Gli elementi propri della poetica del regista statunitense sono tutti presenti - la madre come figura castrante e inquietante, la sessualità come sfera da temere, la casa come luogo inospitale per eccellenza - così come sono presenti richiami più o meno espliciti ad altri suoi lavori. Su tutti è il caso di menzionare Beau, cortometraggio del 2011, in cui il medesimo pretesto, ossia la partenza del protagonista per andare a fare visita alla madre, dava inizio a una serie di eventi imprevedibili (nell’opera dell’epoca giocati, però, sul piano del grottesco). Ma altrettanto importanti risultano gli esterni cittadini disumanizzati di C’est la vie (2016) o le profonde ansie familiari che prima ancora dei lungometraggi avevano trovato spazio in corti come The strange thing about the Johnsons (2011) o Munchausen (2013).
Tutto molto semplice da comprendere, si dirà. Ma quale può essere considerato il confine tra autocitazione e autoreferenzialità? Dove si può collocare la soglia di tolleranza massima per quello che viene mostrato in un film incapace di essere confinato ai ranghi dell’horror puro?
L’operazione di Aster è fin troppo chiara e sembra purtroppo ripercorrere, anche se con maggiore consapevolezza, un sentiero già battuto da altri (Lars Von Trier in testa): riutilizzare elementi chiave della propria visione del mondo per dare vita ad un racconto il cui obiettivo è unicamente quello di sconvolgere e mettere in crisi.

Non sembra infatti che il film messo in piedi da Aster abbia altro scopo se non questo. Lo spettatore, coinvolto emotivamente fin dall’inizio, finisce per vivere la stessa angoscia del protagonista, soffrendo per lui e con lui. Tre ore di malessere puro in cui il significato della storia, già di per sé difficile da identificare, si perde nei rivoli della drammatizzazione estenuante di ogni dettaglio, nella lentezza avvilente di troppi movimenti e nella costante perdita di consequenzialità narrativa. Un’ansia per l’ansia, che non rivela nulla, dunque, ma si compiace della propria gratuità.
Tolta la performance di Joaquin Phoenix, forse unico vero erede ai giorni nostri di quel maestro nella rappresentazione della follia che è stato Jack Nicholson, e la fotografia impeccabile del solito Paweł Pogorzelski, in Beau ha paura c’è veramente poco da salvare.
Resta il rimpianto per gli anni di attesa, ma anche la speranza che si sia trattato solamente di un incidente di percorso.
Voto: 2.5/5
Comments