Father Mother Sister Brother
- traumfabrikblog
- 10 ore fa
- Tempo di lettura: 3 min
2025, 110 min.
Di Jim Jarmusch
Con Adam Driver, Tom Waits, Cate Blanchett
Recensione di Marco Santoro
Spoilerometro:

Jim Jarmusch è un veterano del cinema indipendente. L’approccio concettuale e contemplativo ma allo stesso tempo basato sul sentire delle sue opere è qualcosa che spesso ritorna nel suo operato, e che in Father Mother Sister Brother emerge in modo chiaro. È un rappresentare il sentire attraverso esempi e la loro comparazione da parte dello spettatore, che così facendo può dedurre intuitivamente l’essenza di qualcosa, senza rimanere intrappolato in una definizione limitante.

Nella sua ultima opera, Father Mother Sister Brother, il tema è quello delle relazioni familiari. In linea con alcune sue opere precedenti, Jarmusch mette in forma scegliendo una struttura a capitoli: dividendo il film in tre storie separate che si susseguono, l’attenzione è concentrata rispettivamente sulla figura di un padre, poi di una madre, poi di una sorella e di un fratello. Il numero tre è centrale: il padre si relaziona con il figlio e la figlia nella prima, la madre si relaziona con le due figlie nella seconda, i due fratelli gemelli si relazionano con la casa dei genitori nella terza storia. Il tre è importante quanto il quattro, dove il quarto elemento è la presenza della mancanza: il tema della perdita, o semplicemente dell’assenza, ritorna in tutte e tre le storie. Nella prima manca la madre, nella seconda il padre, nella terza entrambi, sostituiti da una casa vuota e un box auto pieno, totem intoccabile, concentrato di emotività, difficile da disassemblare, come sono difficili da processare le foto di famiglia. Le storie hanno in comune tra loro non ambientazione e personaggi, bensì tutto ciò che esiste tra le righe, tutto l’evidente e il non detto che affiora nel sentire le relazioni tra esseri umani associati da un legame familiare: tutto ciò che chiunque può essere in grado di percepire e provare in quanto membro di una famiglia.

Jarmusch sembra non essere interessato a fornirci la definizione assoluta di famiglia, piuttosto ne lascia emergere l’essenza mediante rappresentazioni esemplari, portando in primissimo piano quelle dinamiche, quei momenti inafferrabili, quelle sensazioni a pelle che sono sempre presenti in ogni famiglia, da sempre, e per farlo lascia fuori tutto ciò che non è strettamente necessario a tale scopo: i dialoghi non sono importanti quanto piuttosto lo sono i gesti accennati, gli sguardi, i non detti e il dato per scontato. Con poche pennellate Jarmusch dipinge esattamente quanto di più personale, intimo e al contempo universale vi è in tutte le famiglie, ovvero il concetto stesso di familiare, e lo fa lasciandocelo sentire, vedere, piuttosto che descrivendocelo. Il ritorno, uguale, di determinate frasi, tematiche e situazioni di fondo in tutte e tre le storie, che possono ogni volta essere spontaneamente declinate in modo diverso dallo spettatore che ne fa la sintesi, non fa altro che evidenziare questa essenza della familiarità. Essa in questo modo diventa protagonista, e il regista ne è consapevole artefice, sfrondando dettagli aggiuntivi e narrazioni accessorie che nel caso di questo film sarebbero superflue e fuori tema - e in questo modo Jarmusch riesce in qualcosa di non facile, dimostrando tutta l’esperienza maturata nella sua carriera.

Vedere un film così ha l’effetto di farci sentire meno soli, più piccoli, volendo anche un po’ ridicoli, ma in senso positivo e liberatorio. La famiglia dalla quale proveniamo e di cui facciamo parte è come tutte le altre: un concentrato di intimità e di relazioni archetipiche, un teatro privato in miniatura ad imitazione del mondo esterno in cui tutto nasce, cresce, ritorna e che prepara, bene o male, al sociale e al pubblico. Il particolare è universale.
Voto: 3,5/5







Commenti