2024, 123min.
di Andrea Segre
con Elio Germano, Elena Radonicich, Roberto Citran
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

Che film è quello che da alcune settimane sta mettendo in crisi le certezze di distributori ed esercenti aumentando il numero di sale in cui viene proiettato e riscuotendo successo da un pubblico trasversale? Un film su Enrico Berlinguer. Anzi, il primo film non-documentario mai realizzato su questa figura. Certamente, ma non soltanto. Un film su un momento specifico della vita del dirigente politico sardo, forse. A voler essere più precisi un film sull’opzione tattica proposta da Enrico Berlinguer dopo il colpo di stato in Cile per fare in modo che all’ipotetico arrivo al governo delle forze democratiche e progressiste, in Italia, non seguisse un bagno di sangue.
Berlinguer - La grande ambizione racconta, infatti, la vita pubblica e privata del segretario del Partito Comunista Italiano nell’arco temporale compreso tra il 1973 e il 1978, gli anni in cui la svolta del “compromesso storico” viene elaborata, proposta, discussa e in cui si tenta senza successo di praticarla. Ma nel farlo lascia spazio a una domanda: che senso ha realizzare oggi un film su una strategia politica vecchia di cinquant’anni, datata nelle sue premesse e storicamente sconfitta dagli avvenimenti? Nella risposta a questa domanda si nasconde il significato dell’operazione.

Ad essere centrale, in questo racconto, non è il valore storico o quello documentario; la sfida di Andrea Segre ha come obiettivo quello di portare sul grande schermo una strategia politica, o meglio, raccontare un tempo e uno spazio in cui era possibile che delle forze politiche ragionassero sulla lunga durata, inserendo la propria azione in un contesto ampio, trascendendo i livelli sociali e, se possibile, persino la storia. È questo a colpire oggi più di tanti altri elementi quando si osserva la vicenda del Partito Comunista Italiano: la natura di un’organizzazione gigantesca, a volte eccessivamente statica nella sua struttura, ma in realtà in continuo movimento, immersa in una riflessione costante che aveva come punto di partenza e di arrivo la propria comunità.
Non è dunque un caso che il film, programmaticamente incentrato sul racconto di un personaggio, su una biografia, non possa fare a meno di diventare corale; di dare spazio alle voci che animano la discussione. Perché il Partito Comunista avrebbe potuto anche esistere, funzionare, vivere senza Enrico Berlinguer, ma Enrico Berlinguer non sarebbe mai stato l’uomo passato alla storia se la sua vicenda umana non avesse incrociato quella del PCI. Di questa apertura alla discussione lo spettatore pensa di farsene poco, ne intuisce solo marginalmente il significato e proprio quando si trova a pensare che sia solamente “contorno”, che serva a dare respiro, a offrire uno spaccato di realtà durante la visita alle cucine della festa nazionale dell’Unità o nel confronto con gli operai del petrolchimico di Ravenna, è lì che ne comprende il significato. Non si tratta solamente di marcare la differenza con i nostri tempi, quelli in cui la politica è totalmente accentrata sugli individui che la impongono alle organizzazioni (quando queste esistono ancora) o al paese. Il punto è fare comprendere che quella di Berlinguer, per quanto complessa, per quanto elaborata, per quanto combattuta, era realmente una proposta politica. E come tale poteva e doveva essere discussa dall’intero corpo politico del PCI.

In un tempo in cui l’interpretazione di personaggi politici al cinema è costantemente spinta verso i due poli opposti, ma altrettanto sconfortanti, della caricatura macchiettistica (si pensi al lavoro di Toni Servillo prima su Giulio Andreotti e poi su Silvio Berlusconi, in entrambi i casi sotto la direzione di Paolo Sorrentino) e della beatificazione in vita (qui è sufficiente citare l’Aldo Moro interpretato da Fabrizio Gifuni prima in Romanzo di una strage, poi in Esterno notte), Elio Germano riesce a portare sullo schermo una versione di Enrico Berlinguer estremamente intelligente. La ricerca attoriale rimane tale e non sfocia nel cosplay carnevalesco di Favino nei panni di Craxi; l’attore mantiene il proprio volto, ma recupera e riporta a galla timbri, movenze e gestualità del segretario comunista, restituendolo con una fedeltà inaspettata.

Torniamo allora alla domanda iniziale: che film è questo? Non un racconto romanzato, ma un racconto storico con lo stile del romanzo. Come nei libri di Antonio Scurati o di Javier Cercas, dove la Storia scrive i soggetti e l’autore si limita modellare la forma, ci troviamo di fronte ad un ibrido che supera le classificazioni di genere, «un cinema caratterizzato dalla cancellazione dei confini tra film e documentario, persona e personaggio, ritratto e autoritratto, oggettivo e soggettivo» per usare le parole di Pasquale Misuraca (1); un cinema certamente politico, dove la dimensione collettiva diventa lo strumento di comprensione dell’umano.
Se c’è una critica da muovere a questo film essa riguarda esclusivamente la scelta del titolo, probabilmente troppo didascalico. Una menzione particolare va, invece, alla colonna sonora spigolosa e a tratti straniante firmata da Iosonouncane, illuminata ulteriormente sul finale dal brano realizzato con Daniela Pes.
(1) Cfr. Pasquale Misuraca, È nato un nuovo cinema?, «Alias» 3/11/24, p. 5.
Voto 4/5
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