2021, 133min.
di Marco e Antonio Manetti
con Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastrandrea
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

È possibile portare un fumetto sul grande schermo in modo non didascalico? È possibile farlo senza togliere nulla alla storia in termini di ritmo e originalità? La storia del cinema, a partire dalla sterminata produzione dell’universo Marvel, dimostra che questa operazione è possibile; l’esperienza italiana, però, non sembra andare in questa direzione e il recentissimo Diabolik pare confermare questa differenza.
Il settimo lungometraggio dei Manetti Bros. è, infatti, quanto di più distante dall’azione che attraversa il crime creato da Angela e Luciana Giussani all’inizio degli anni ’60. La trama prende spunto da uno dei primissimi albi: nello stato immaginario di Clerville c’è un ladro tanto abile quanto spietato che semina il terrore, il suo nome è Diabolik ma nessuno l’ha mai visto. La milionaria Eva Kant, in visita nel paese, subisce un furto da questo misterioso uomo in nero. L’incontro è il pretesto per far scoppiare l’amore tra i due che iniziano una nuova avventura da criminali in coppia.

Girato negli ultimi mesi del 2019, dunque a più di cinquant’anni di distanza dal primo e ultimo tentativo di adattamento cinematografico (Diabolik di Mario Bava, 1968), e arrivato in sala dopo oltre un anno di attesa, il film delude da ogni punto di vista proprio per il tentativo di risultare quanto più fedele possibile al fumetto. A dominare su tutto è un’atmosfera rarefatta capace di comunicare allo spettatore la natura irreale e posticcia di quanto sta osservando. La finzione non viene mascherata da realtà, così come dovrebbe accadere al cinema, né tantomeno la sua presenza palese viene rivendicata come scelta artistica. Essa rimane costantemente percepibile e finisce per generare fastidio e insofferenza.
A nulla serve il cast di primo piano se le battute di Leone (letteralmente identica all’eroina disegnata) e Marinelli (un Diabolik più apatico che cinico) sembrano gettate nel vuoto, quasi fossero pronunciate da due narcolettici. Così come a nulla servono le stupende scenografie di interni se le luci utili a inquadrarle finiscono per appiattirle, rendendole drammaticamente bidimensionali. La pessima fotografia è quanto di più sorprendente – in negativo – nell’intera costruzione del film: dalle scene in pseudo-esterna in cui sembra quasi di poter toccare il green screen posto dietro gli attori, ai primi e primissimi piani spesso somiglianti più a quelli di uno spot per cosmetici che non ad un noir.

Unico elemento positivo, oltre già menzionata perizia con cui sono ricostruiti ambienti e arredi dall’epoca, la stupenda colonna sonora composta da Pivio e De Scalzi e arricchita da due brani originali interpretati da Manuel Agnelli. Spesso usata a sproposito, commentando scene in modo improprio o accompagnandone in modo straniante lo svolgimento, è la sola forza in grado di tenere sveglio lo spettatore.

L’operazione delude nel complesso e pone un interrogativo su quanto fossero pronti gli autori al tanto auspicato salto di qualità. L’ambientazione partenopea dei precedenti Ammore e malavita (2017) e Song’e Napule (2014) e il loro registro improntato ad un dialogo costante tra i modi del poliziesco e quelli della commedia si prestavano, forse, maggiormente allo stile di questa coppia cresciuta a pane e B-movie, tra la realizzazione di un videoclip di Mietta e uno di Alex Britti. Di conseguenza il grande investimento di denaro (quattro volte superiore a quello dell’ultimo lavoro) non è stato sufficiente a fornire gli elementi utili a girare un film d’azione freddo e convincente. Probabilmente il cinema resta ancora una questione di stile, non di soldi.
Voto: 2.5/5
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