2021, 112min.
di Paul Schrader
con Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan, Williem Dafoe
Recensione di Sofia Magliozzo
Spoilerometro:

William Tell, interpretato da Oscar Isaac, è un giocatore di poker e blackjack che gira gli Stati Uniti scommettendo sempre puntate basse e vincendo, allo stesso modo, somme abbastanza piccole da passare quasi inosservate agli occhi dei proprietari dei casinò. Ogni volta che termina il gioco, rientra nella stanza di un motel e si dedica all’unica attività che pare essere capace di svolgere una volta abbandonato il tavolo da gioco: scrivere un diario in cui riversa i suoi pensieri più intimi e svela le proprie sporche colpe con l’intento di tenere a bada i suoi demoni.
Già durante il primo incontro con William, lo spettatore prende immediatamente consapevolezza del suo passato: il carcere, il crimine non ben specificato, la violenza. Appare evidente che il talento che gli permette di scommettere senza mai perdere, risiede nel “contare”, cioè in una tattica mnemonica attraverso la quale è possibile tracciare tutte le carte uscite sul tavolo da gioco, in modo tale da prevedere se quelle non ancora scoperte potranno portare vantaggio a lui o al banco. Questa è un’abilità chiave, per il presente di William, e già dai primi minuti si capisce come sia stata proprio l’esperienza carceraria ad avergli permesso di acquisirla. Prima di diventare un abile giocatore, egli è stato, infatti, un militare che ha dovuto scontare, per quasi un decennio, la pena per una serie di crimini di cui si è macchiato quando era in servizio di guardia ad Abu Ghraib. Ed è proprio tra le sale dei casinò e tra i tavoli da gioco che l’apparente “nuova vita” di William Tell prende una piega inaspettata.
Dapprima l’incontro con l’agente di gioco, La Linda, interpretata da Tiffany Haddish e immediatamente dopo quello con un giovane Tye Sheridan, nei panni di uno studente universitario, portano alla luce il passato da cui William sta cercando di prendere le distanze. Questi incontri, che all’inizio sembrano forzati ed artificiosi, gradualmente riescono a mettere a fuoco il conflitto centrale di tutta la storia del film.

Per Oscar Isaac questo è sicuramento un ruolo superbo, poiché riesce a portare il sentimento che lo contraddistingue, all’interno di una vicenda il cui protagonista trama ogni mossa con attenta precisione. «Mi tengo a obiettivi modesti» diventa quasi il motto di un uomo cauto che mira a non attirare l’attenzione, mostrandosi sempre con abiti economici ma eleganti: camicia, cravatta e giacca di pelle. Il suo guardarsi attorno senza mai apparire insicuro, rende coerente e coeso anche il deciso «no grazie» alla proposta di La Linda di iniziare a giocare per puntate più alte. Questo voler imporre un ordine estremo all’estremo disordine del passato è un atteggiamento che trova conferma in quasi tutte le azioni di William: quando si trasferisce in una nuova stanza di motel, ad esempio, copre ogni mobile con lenzuola bianche, ma nel suo sguardo oscuro e perseguitato si nota chiaramente come il passato sia composto da un mix di traumi che non possono essere eliminati così facilmente. William, nel tentativo di sfuggire al suo passato inevitabilmente marchiato dalla violenza, ha costruito una nuova prigione di routine ed isolamento all’interno del circuito dei casinò americani, da cui sembra impossibile uscire.

Come in molti dei film di Schrader, a partire dalla sceneggiatura di Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, la conclusione violenta appare inevitabile a prescindere da quanto si provi ad evitarla.
Con una serie di espedienti cinematografici, Il collezionista di carte, approfondisce il trauma e lo scandalo delle tecniche degli interrogatori potenziati: i frequenti flashback sull'orrore avvenuto ad Abu Ghraib, in cui ci sono prigionieri maltrattati e interrogati, sono riportati come fotogrammi filmati con un fish-eye fortemente distorto e deformante e consegnano un abominio visivo oltre che morale, penetrando la superficie apparentemente calma e lineare del film. Con quest’opera infatti, il regista consegna una sua dura e spigolosa autopsia dell'anima americana senza però stabilirne i confini.
Siamo davanti ad un film con una natura senza alcun dubbio cupa ed è chiaro che Schrader non abbia alcun intento didattico: la storia può tranquillamente non essere presa alla lettera ed è quasi spontaneo mettere in discussione il perché di così tante informazioni sulle tattiche di gioco che, sfruttando la tecnica della voce fuori campo, vengono ripetute frequentemente. Il poker infatti, si dimostra solo uno stratagemma capace di svelare alcune verità sulla condizione umana, senza il reale bisogno di avventurarsi all’interno della trama.
Voto: 3.5/5
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