The Mastermind
- traumfabrikblog
- 49 minuti fa
- Tempo di lettura: 3 min
2025, 110min.
di Kelly Reichardt
con Josh O’Connor, Alana Haim, John Magaro, Hope Davis
Recensione di Sofia Magliozzo
Spoilerometro:

Con The Mastermind Kelly Reichardt conferma la propria poetica del silenzio e dell’attesa trapiantandola però in un terreno alquanto insolito per il cinema attuale, ovvero quella del thriller psicologico camuffato da heist movie. Ambientato in un Massachusset del 1970, ma che sembra sospeso fuori dal tempo, il film racconta la storia di J.B. Mooney (Josh O’Connor). J.B è figlio di un giudice della contea, padre di due gemelli e giovane disoccupato disilluso che progetta un piano tanto astuto quanto precario per rubare quattro quadri esposti nel museo di arte contemporanea della città. È, però, meno rilevante la riuscita del colpo stesso rispetto alla tensione interiore che lo accompagna: l’illusione di poter dominare il caso, la tentazione di piegare la realtà a un disegno razionale e infine la resa all’imprevedibilità umana.

La regista, già in film come First Cow (2019) e Certain Women (2016), si era concentrata più sull'esplorazione della fragilità dei personaggi con destini minori che sulla rappresentazione cinematografica; in The Mastermind porta questo modo minimalista di raccontare ad un nuovo livello di astrazione. Il focus della pellicola si ferma sui gesti quotidiani, sui vuoti che separano un’azione dell’altra e sulle pause. In questo modo, il movimento appare misurato, come se la narrazione stessa non volesse turbare il precario equilibrio dei personaggi che la animano. Si compone così un ritmo quasi ipnotico, in cui il tempo muta dilatandosi e lo spazio si antropomorfizza diventando un luogo di isolamento, di attesa e di rinuncia.
In un contesto per nulla dinamico, la narrazione di The Mastermind viene esaltata dall’uso della luce: il direttore della fotografia, Christopher Blauvelt, infatti, adotta un registro cromatico, dominato da toni ocra e grigio, che ricorda il cinema americano degli anni Settanta. Le inquadrature statiche, spesso prive di centro narrativo, conferiscono all’immagine una dimensione pittorica e contemplativa. Ogni scena sembra progettata per trattenere lo sguardo più che per condurlo verso un’azione.

La recitazione di Josh O’Connor rappresenta il vero motore emotivo del film. L’attore interpretando un protagonista fragile e contraddittorio ma, allo stesso tempo, caratterizzato da un’intelligenza ansiosa, sfocia spesso in una performance ricca di goffaggine. I suoi sguardi, i suoi movimenti e i suoi gesti– mai davvero decisi – comunicano più delle parole un’inadeguatezza esistenziale che è sia il limite che il cuore della storia. L’attore non sembra recitare le intenzioni del protagonista, ma la sua graduale disintegrazione e la fatica di tenere insieme un piano che si sgretola a causa della sua stessa astuzia.

Nonostante questo tentativo, The Mastermind resta un film che non riesce, o che non vuole, a oltrepassare la soglia della grandezza. La regista sembra voler sacrificare la prevedibile tensione narrativa, tipica di un film di questo genere, sull’altare del minimalismo. Alcune sequenze — in particolare quelle centrali che precedono il colpo e quelle successive che ne narrano l’epilogo— soffrono di una staticità e non danno alcuna possibilità di coinvolgimento emotivo allo spettatore. È come se il film, pur perfettamente consapevole della propria eleganza formale, non trovasse il coraggio di sporcarsi le mani con l’imprevedibilità del caos che tenta di raccontare e provasse piuttosto ad imporsi come un esercizio di stile maturo e di limpida onestà autoriale. Non seducendo con la trama, ma con l’intento riflessivo, non cerca di sorprendere, ma di insinuare la persistenza di un dubbio e, allo stesso tempo, del suo possibile.
Voto: 2,5/5







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