top of page

Il potere del cane (The Power of the Dog)

2021, 126min.

di Jane Campion

con Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee


Recensione di Valentina Corona


Spoilerometro:



1925. Due fratelli, George (Jesse Plemons) e Phil (Benedict Cumberbatch), gestiscono un ranch nel Montana. Per quanto condividano il patrimonio genetico, i due appaiono immediatamente separati da differenze caratteriali profonde: George è pacato e remissivo, parla poco e non ama stare al centro dell’attenzione, mentre Phil è irruento, burbero e dotato del carisma del leader. Phil è un abile cowboy e si occupa attivamente di portare avanti le attività del ranch, con cui si sporca le mani – e il corpo. George, d’altra parte, nei suoi abiti eleganti, non sembra gestire la tenuta di famiglia se non dal punto di vista amministrativo. Sul ranch grava pesante il nome di Bronco Henry, che a Phil ha insegnato il mestiere sin dal lontano 1900, prima di morire quattro anni dopo – la data è scolpita inflessibile nella targa commemorativa che accompagna la sella del maestro cowboy, un immobile cimelio situato nella rimessa dei cavalli. La relazione tra i fratelli Burbank va avanti nel consueto incastro di prevaricazione e sottomissione finché George non si innamora di Rose (Kirsten Dunst) e rapidamente la sposa, portandola a vivere nella tenuta di famiglia.



Rose è la vedova di un suicida, dal quale ha avuto il figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), ragazzo docile e sensibile alle soglie dei vent’anni. I due finiscono col diventare vittime delle torture psicologiche del misogino Phil, convinto che Rose sia un’usurpatrice interessata al denaro e ossessionato da quella che considera la mancanza di mascolinità e vigore della “femminuccia” Peter.

Se in Lezioni di piano (The Piano) il pianoforte era stato per Ada mezzo espressivo e di salvezza, ne Il potere del cane lo strumento diventa correlativo oggettivo delle umiliazioni di Rose, incapace di vincere la sfida col banjo veloce e virtuoso di Phil. Nell’impossibilità di assistere lucida alla sottile prevaricazione a cui è costantemente sottoposta in casa Burbank, Rose affoga il dolore nell’alcol e finisce col perdere del tutto il controllo di sé, sotto gli occhi consapevoli del figlio Peter.



C’è una linea sottile che divide a metà l’ultimo film di Campion, tornata sul grande schermo dopo dodici anni di inattività con l’adattamento dell’omonimo romanzo di Thomas Savage: restiamo a lungo convinti che il dramma messo in scena sia quello di George, Rose e Peter, i “deboli” destinati all’impossibilità del riscatto, ma prendiamo presto consapevolezza di una maggiore complessità delle vicende, che Campion ci chiede di scorgere con occhio attento, lo stesso di cui Phil ha imparato a servirsi osservando la figura del cane che si cela dietro alle colline che si affacciano sul ranch. La seconda metà del lungometraggio, infatti, è quella di Phil e Peter, che il primo decide improvvisamente di prendere sotto la propria ala per farne un impeccabile cowboy.



Cosa si nasconde, allora, dietro la brutalità animale di Phil, che tanto ci ricorda quella del selvaggio George Baines di The Piano? Siamo certi – ci pungola Campion – di potere dedurre il vigore da un corpo statuario e la debolezza da uno smunto e flebile? Qual è la “forza del cane” a cui sottrarsi per allontanare da sé il dolore, come un Gesù sulla croce che implora il padre di farlo scampare alle crudeltà di chi gli inchioda al legno mani e piedi?

Nel solco di Brokeback Mountain, Campion confeziona un western atipico in cui nulla è affidato al caso, men che mai l’ottima recitazione degli attori protagonisti, e si aggiudica un meritatissimo Premio speciale per la regia alla 78ª Mostra internazionale dell'arte cinematografica di Venezia. Non ci resta che sperare di non doverla attendere di nuovo così a lungo.


 

Voto: 4/5

 

Comments


bottom of page