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Il sol dell’avvenire

2023, 95min.

di Nanni Moretti

con Nanni Moretti, Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova


Recensione di Mauro Azzolini


Attenzione, questa recensione presenta due problemi: il primo è che è spudoratamente di parte, nel senso storico e politico del termine; il secondo è che contiene un’anticipazione sul finale del film. Di conseguenza, a chi non lo avesse visto e non volesse rovinarsi la sorpresa è suggerito di interrompere qui la lettura.


Spoilerometro:



Il sol dell’avvenire, ultimo film di Nanni Moretti - ultimo non solo in ordine di uscita nelle sale cinematografiche, ma probabilmente anche punto di arrivo della sua produzione - parte, infatti, da una trama non innovativa per affrontare un discorso che tanto dal punto di vista politico, quanto da quello stilistico, assume significato soltanto nelle battute conclusive. La situazione di partenza è quella a cui già altri titoli dell’autore romano ci hanno abituato: un regista (interpretato dallo stesso Moretti), la cui vita privata e professionale sono in crisi, è alle prese con la lavorazione di un film e con le mille ansie della quotidianità. Le preoccupazioni per lo sviluppo della sceneggiatura si mescolano a quelle per il rapporto con la moglie (M. Buy), l’incapacità di accettare la relazione della figlia con un uomo molto più grande va di pari passo con la presuntuosa volontà dell’attrice protagonista di affermare il proprio modo di recitare, e così via.


Nel marchingegno metacinematografico che Moretti mette in scena, dunque, pubblico e privato si mescolano ancora una volta e, in modo molto simile a quanto accadeva esplicitamente in Caro diario (1993) o Aprile (1998), diviene complesso stabilire il punto esatto in cui la realtà cede il passo alla finzione. Questo dato, presente nella poetica del regista romano fin dalle origini (basti pensare all’alter-ego Michele Apicella che ne attraversa la produzione da Io sono un autarchico a Palombella rossa), diventa allora un elemento fondamentale per la comprensione dell’esperienza cinematografica nel suo complesso, e va necessariamente incrociato con il discorso politico.



Il film che il regista-protagonista sta girando racconta, infatti, la storia di una sezione romana del PCI nei giorni dell’ingresso dell’Armata Rossa in Ungheria del 1956. In quel contesto spiccano due figure: il segretario (S. Orlando), fedele alla linea di non-condanna dell’intervento sovietico indicata dai vertici nazionali, e la moglie di questi (B. Bobulova), che mossa da un umanitarismo a tratti pre-politico solidarizza con gli insorti ungheresi e, supportata da numerosi compagni, pretende che il partito condanni apertamente l’operato di Mosca. La trama prevede che, incapace di scegliere tra la fedeltà alla causa e l’amore coniugale, il segretario finisca per impiccarsi. Qui interviene, però, una svolta.


Dopo essere stato costretto ad affidarsi ad una produzione coreana (il primo produttore viene meno per ragioni finanziarie, né ha alcun risultato il confronto con Netflix - pur esilarante nel raccontare un mondo dello spettacolo dove la sparizione di intelligenze umane ha spianato il campo al dominio di quelle artificiali), il regista entra definitivamente in crisi quando la moglie decide di lasciarlo. Sconvolto, decide di sconvolgere il finale del film: il segretario non si toglie la vita, ma anzi insieme alla moglie guida una protesta della base contro i dirigenti del partito che riesce nell’obiettivo di far rompere i legami tra comunisti italiani e sovietici. Il ‘film nel film’ si conclude con un grande corteo nel quale, accanto ai militanti del Quarticciolo che sventolano bandiere rosse e reggono ritratti di Trotskij, si vede marciare persino Palmiro Togliatti.



Moretti sceglie una narrazione controfattuale per circoscrivere il perimetro di un ragionamento ampiamente conosciuto. Si tratta, dunque, di una storia fatta con i ‘se’: cosa sarebbe potuto accadere se il PCI avesse prestato ascolto alle rimostranze di molti dei suoi militanti? Cosa sarebbe successo se effettivamente avesse preso posizione contro l’URSS in quei giorni drammatici? La risposta è cristallina e afferma con chiarezza che questa avrebbe potuto rappresentare l’unica possibilità per l’Italia di avere una forza politica socialdemocratica, libertaria, capace di interpretare autonomamente gli eventi e di prendere posizione in modo disinvolto su quanto accadeva nel mondo. Questa tesi, cara a Moretti così come a una vasta porzione dell’ambiente intellettuale engagé, poggia però su una premessa fallace, ossia sull’idea che il Partito Comunista Italiano non sia stato all’altezza della sfida politica perché eccessivamente legato alle direttive di Mosca, e che questo virus ne abbia corroso l’ossatura in modo tanto profondo da determinare l’incapacità di costruire una vera sinistra moderna dopo il suo scioglimento. Tuttavia, e questo Moretti dovrebbe saperlo bene, la grandezza del PCI di quegli anni è stata quella di riuscire a tenere insieme un posizionamento internazionale schierato con la resistenza posta dal Patto di Varsavia alla presenza statunitense sul territorio europeo, e una strategia nazionale di conquista del potere chiaramente iscritta nel solco della democrazia. Quel «siamo uguali ma siamo diversi» che nel finale di Palombella rossa il protagonista ripeteva in modo ossessivo prima di schiantarsi con l’auto di fronte a un nascente Sol dell’avvenire; è in quella apparente contraddizione la cifra del comunismo italiano e non in un macchiettistico stalinismo che il protagonista (e dietro di lui c’è l’autore) pensa di redimere a settant’anni di distanza.



Il sol dell’avvenire è allora, al netto della scarsa consapevolezza con cui appare pensato, il più politico dei film del regista romano; quello in cui, attraverso la storia, prova a dire in modo chiaro quello che pensa del presente. Nonostante ciò, o forse proprio in funzione di ciò, esso è anche l’ultimo di una lunga carriera, come appare evidente dalla sequenza con cui si conclude.


La tensione determinata dalle infinite sovrapposizioni tra il Moretti regista nella realtà di oggi e il Moretti regista nella finzione del film trova il suo culmine nella scena finale. In un riepilogo catartico dell’intera esperienza di autore, spezzando in modo sorprendente il filo logico che tiene insieme le immagini, egli fa sfilare accanto ai personaggi in scena i volti più noti dei suoi lavori: Jasmine Trinca (La stanza del figlio), Elio De Capitani (Il caimano), Alba Rohrwacher (Tre piani), Renato Carpentieri (Caro diario), e ancora Lina Sastri, Giulia Lazzarini, Dario Cantarelli, Mariella Valentini e l’ex moglie Silvia Nono per poi chiudere su di sé, con uno sguardo alla macchina da presa e un saluto al pubblico che è al contempo un ringraziamento e un addio.



Come giudicare, dunque, questo film? Autoreferenziale prima di ogni altra cosa, come tutti i film di Nanni Moretti; politicamente insensato, oltre che inutilmente colpevolista sul piano storico; orribile da un punto di vista prettamente estetico, e non tanto nella costruzione delle immagini e nella messa in scena, quanto piuttosto nella riproposizione logora di alcuni stilemi (la canzone da cantare in auto, le scene di danza collettiva) e nella recitazione dello stesso Moretti, ormai privo anche solo dei riflessi necessari a pronunciare una battuta nei tempi giusti. Ma anche brillante, critico quanto basta verso il cinema di oggi, ben fotografato da Michele D’Attanasio e assolutamente geniale nell’edificazione di un finale capace di liberare il cinema dalla dicotomia finzione/realtà. Un finale perfetto per il film di Nanni Moretti. Un finale perfetto per la carriera di Nanni Moretti.


Voto: 3/5



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