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L’origine du mal


2022, 125min.

di Sébastien Marnier

con Laure Calamy, Suzanne Clément, Doria Tillier


Recensione di Eleonore Bully

Spoilerometro:



Stéphane (Laure Calamy) è operaia in un conservificio di sardine. La sua vita quotidiana si divide tra il lavoro e le visite al parlatorio dalla sua compagna (Suzanne Clément) che è imprigionata per un motivo sconosciuto. L’inizio del film ci immerge nella precarietà di questo percorso che raggiunge il suo culmine quando Stéphane viene mandata via inaspettatamente dalla padrona di casa. Nel bel mezzo del marasma, Stéphane decide di ritrovare suo padre, Serge (Jacques Weber).

Dopo alcuni tentativi, riesce finalmente a raggiungere il padre che la invita a fargli visita a casa sua, sull’Isola di Porquerolles. Arrivata li, sotto la luce della Costa Azzurra, scopre una casa lussuosa che trabocca di oggetti strani e di animali impagliati.



Stéphane viene accolta dalla moglie di Serge (Dominique Blanc), icona burlesca che ricorda la Bianca Castafiore di Tintin, e dall’antipatica figlia maggiore Georges (Doria Tillier). Entrambe la guardano con sospetto e la respingono in modo subdolo. In questo scenario grottesco, Serge sembra un patriarca fantoccio circondato da donne dall’aria assassina: alle due già citate si aggiungono la nipote e l’enigmatica serva. Esse sembrano insensibili al peggioramento delle condizioni di salute di Serge. Sono tutte quattro ossessionate da una sola idea: mettere lui e il suo patrimonio sotto tutela.

Stéphane appare invece in ammirazione di fronte al padre ritrovato, e accetta di aiutarlo testimoniando al tribunale contro la messa in custodia pianificata dalle altre donne. È intorno a questa procedura che gli interessi di ciascuna delle donne si confondono e appaiono sempre meno chiari allo spettatore. Ci si chiede quale sia il segreto e lo scopo di ciascuna di esse in questo grande gioco di inganni.

Anche se si ha l’impressione di assistere a una farsa esuberante, ci si aspetta sempre che accada un evento drammatico. La nostra ansiosa attesa è accentuata da piani rapidi e consecutivi su oggetti angoscianti o su questi volti dall’aria machiavellica. Si apprezzano in questo senso gli ingressi di campo “di nascosto” che costituiscono un riferimento ironico al film noir. Meno comprensibile è la necessità dello split-screen o delle lenti anamorfiche per distorcere l’immagine, che sembrano entrambe superflue.



Come nel suo precedente film L’Heure de la sortie (2018), Sébastien Marnier utilizza uno schema narrativo che ruota su sé stesso e ci fa cambiare prospettiva man mano sull’elemento disturbante. Il regista gioca con i pregiudizi dello spettatore sulle intenzioni dei personaggi, e ogni maschera che cade riscrive la storia in modo diverso.

L’insieme contribuisce a creare un’atmosfera la cui tossicità è quasi inebriante. I personaggi sono tanto vittime quanto carnefici, ed è necessario sottrarsi alla morale ordinaria per capire che i ruoli e le alleanze cambiano e si ricreano in continuazione, nel bene e nel male. Questo schema narrativo ci ricorda a tratti quelli sviluppati, forse con più agilità e profondità, da Park Chan-wook per esempio nel film Mademoiselle (2016).

I legami familiari, il dominio maschile, la sorellanza, o ancora la violenza di classe: ognuno di questi argomenti è oggetto di immagini potenti durante il film, e contribuisce a strutturare una sinossi che ne rivela le contraddizioni. La scenografia e la messa in scena macabra conferiscono a questo dramma sociale un aspetto grottesco, che cozza con la gravità degli argomenti trattati. Sébastien Marnier si diverte a ridistribuire costantemente la carica critica del suo film mettendo in risalto quale sia l’origine del male, eppure la forza del film non è questa. Il tema del titolo può essere oggetto di varie interpretazioni, ma il film ci vuole far vedere con una brutalità comica la complessità e la varietà delle conseguenze di questo male sulle vite dei protagonisti.



Seguendo questa linea, il regista ha voluto anche affrontare il registro del dramma psicologico. Ognuno dei personaggi sembra disperatamente in cerca di identità, di appartenenza o di amore. Il personaggio di Laure Calamy ne è un esempio particolarmente eloquente. Anche se svelata a poco a poco durante il film, l’evidenza delle motivazioni che la spingono a voler far parte di questa famiglia, ne fa un ruolo quasi tragico. L’attrice è la forza d’attrazione del film, e si pone al di sopra delle altre interpretazioni, a volte un po' dissonanti. In effetti, il registro del dramma psicologico è forse quello che viene trattato con più superficialità. Ci si rammarica della mancanza di ricerca che si cela dietro l’aspetto stridulo di alcuni personaggi come quello di Suzanne Clément, che ricordiamo così giusta e convincente negli ultimi film di Xavier Dolan.

Nel complesso, L’Origine du Mal veste questo inizio d’inverno della giusta ironia, prendendo in giro la nostra empatia e i nostri preconcetti. Tuttavia, si può deplorare una tale mescolanza di registri e tecniche che talvolta si perde in qualità su alcuni argomenti. A scelta, meglio una buona critica sociale trasformata in una farsa grottesca, piuttosto che un dramma psicologico incompleto.


Voto: 3/5

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