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La camera azzurra

  • traumfabrikblog
  • 19 dic 2024
  • Tempo di lettura: 2 min

2014, 76 min.

di Mathieu Amalric

con Mathieu Amalric, Léa Drucker, Stéphanie Cléau.

 

Recensione di Sofia Magliozzo.



Spoilerometro:




La camera azzurra, adattamento cinematografico del romanzo di Georges Simenon, si sviluppa con una trama che, a prima vista, può apparire semplice e lineare. In realtà, la relazione clandestina tra due amanti è solo la matrice su cui si erge l’analisi, fredda e chirurgica, del disfacimento morale e del cortocircuito emotivo che possono derivare da una storia di adulterio.

 

La narrazione, appositamente frammentaria, in cui passato e presente si intrecciano continuamente, ha come punto di partenza il legame alchemico tra Julien Gahyde, interpretato dal regista stesso, ed Esther Despierre (Stéphanie Cléau); evolve concentrandosi sui loro incontri che avvengono nella segretezza della “camera azzurra” e giunge all’esasperazione del  desiderio e alle sue inevitabili conseguenze distruttive.


Amalric, attraverso un montaggio discontinuo, guida lo spettatore nella costruzione di un puzzle fatto di ricordi, confessioni ed interrogatori, dando vita così ad un’esperienza ipnotica tanto quanto ambigua.

Julien infatti, è allo stesso tempo sia vittima che carnefice e risulta intrappolato in un groviglio di pulsioni e stati d’animo che gli impediscono di controllare il proprio destino. Esther, d’altro canto, mantiene uno status perennemente ambiguo e capace di incarnare solamente il lato oscuro del proprio desiderio.

Con questo approccio narrativo, il regista, sembra voler riflettere l’impossibilità di conoscere completamente la verità sui fatti, sia per i protagonisti che per chi li osserva.




La pellicola è caratterizzata da un esagerato senso di claustrofobia, amplificato strategicamente dalla scelta del formato, 4:3, che consegna così inquadrature ravvicinate ed opprimenti capaci di trasformare la “camera azzurra” in un luogo metaforico, simbolo dell’imprigionamento, - corporeo e psicologico - dei due amanti.

 

Anche il linguaggio visivo è particolarmente evocativo: la fotografia infatti, posta ad enfatizzare i toni desaturati e le luci soffuse, crea un’atmosfera di intimità particolarmente cupa. I corpi, pur ripresi con sensualità pudica, sono mostrati costantemente come “oggetti” del desiderio e calati all’interno di una dialettica tra “eros” e “thanatos” che risuona come un’eco costante durante tutto il film.

 



La freddezza emotiva, sebbene coerente con l’estetica dell’opera, rischia di allontanare gli spettatori meno propensi a godere di un film che richiede necessariamente la decifrazione costante di sottotesti, sfumature e sfaccettature. In realtà questa distanza, anch’essa palesemente voluta, sembra voler rafforzare l’idea che Amalric non cerchi di compiacere il suo pubblico ma piuttosto ne richieda una partecipazione quasi “intellettuale”.

 

Il film, che nel 2015 ha ottenuto la nomination per la miglior sceneggiatura non originale al premio César, è un’opera in cui ogni dettaglio contribuisce a generare un’esperienza che è al contempo seducente ed inquietante, riuscendo appieno ad esplorare la profondità dell’animo umano e il desiderio che lo attraversa.


Voto: 3,5/5

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