2024, 124min.
di Pablo Larraín
con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher
Recensione di Mauro Azzolini
Spoilerometro:

L’ultima settimana di vita della più grande soprano del ventesimo secolo. Una settimana vissuta, per così dire, pericolosamente, tra allucinazioni, ossessioni e abuso di farmaci. Tra sbalzi d’umore e ricordi non sempre piacevoli che fanno da corollario ad un percorso frammentario. Nell’arco di questi sette giorni Maria Callas (A. Jolie) vede scorrere davanti a sé, in ordine sparso, le tappe di un’esistenza fuori dal comune. E con il pretesto di raccontarsi ad una troupe giornalistica si trova a rivivere l’invadente presenza tedesca in Grecia, i palchi dei più importanti teatri d’opera del mondo e, soprattutto, la relazione con Aristotele Onassis (H. Bilginer).
Osservando rapidamente questa sinossi è facile comprendere come la scelta di Larraín, giunto al suo undicesimo lungometraggio, sia quella di concentrarsi non sull’aspetto artistico della figura, quanto sulla sua interiorità. L’ipotesi formulata dal regista è, infatti, quella che dietro la fine prematura di questa donna incredibilmente amata vi sia il dramma di una smisurata solitudine; in questo senso va interpretata la volontà apparentemente contraddittoria di tralasciare una delle dimensioni tipiche della biografia, ossia la costruzione del successo (lo studio, la gavetta), per dare invece risalto agli aspetti mondani. Maria Callas sembra trascendere la dimensione del tempo per offrirsi come declinazione contingente della perfezione: è questo l’inizio che si vuole mettere in risalto, il punto da cui origina la frattura del soggetto e si diffrangono le sofferenze.

Per evidenziare questa frattura, sul piano temporale dei ricordi si articolano due linee: la prima, incorniciata da un bianco e nero che volutamente appiattisce l’immagine, mostra allo spettatore la sofferenza di relazioni sociali in cui la protagonista è un oggetto, un qualcosa posseduto da qualcuno; la seconda, più breve e diluita, con un colore dai forti contrasti e dai confini non definiti, la ritrae sulle scene come catalizzatore di attenzione, passione e amore. Il palco si offre come unico spazio all’interno del quale il dolore può trovare pace. Non sorprende, allora, che la Maria che vediamo sul piano del presente sia alla ricerca di un modo per riconquistare quello spazio. Non riuscendovi, poiché – paradosso che amplifica la diffrazione – quella perfezione è irraggiungibile persino per chi l’ha fatta conoscere al mondo, sceglie di utilizzare l’ultima arma a disposizione: una totale e consapevole perdita di controllo della mente e del proprio corpo.
A nulla servono le premure dei domestici Ferruccio (P. Favino) e Bruna (A. Rohrwacher). La scelta estrema è quella di ignorare le raccomandazioni del medico, gli esami, le terapie per abbandonarsi a un dolce delirio grazie in virtù del quale le figure del passato vengano ad occupare il presente. L’autodistruzione è anche autodeterminazione, fatale affermazione della propria volontà nel momento in cui ogni altra possibilità è esclusa.

Per rendere meno dolorosa questa passeggiata verso l’adesione al modello tragico di una delle tante eroine interpretate dalla protagonista (quel «vissi d’arte, vissi d’amore» della Tosca riecheggia nella mente di chi guarda ben prima di arrivare all’udito), Larraín inventa la figura del giovane giornalista immaginario Mandrax (K. Smit-McPhee). La trovata è, in realtà, lo strumento per dare ulteriore elasticità visiva al film poiché, mostrando alternativamente le riprese del cronista, i flashback e lo spazio circostante, il regista sottopone lo schermo a un movimento continuo di compressione ed espansione dai 4:3 delle piccole cineprese portatili al widescreen VistaVision (splendidamente dipinto da Edward Lachman); un dato che si accompagna all’avvicendarsi di ritmi ora rapidi, ora solenni e lenti.

Con questo titolo Larraín chiude magistralmente la sua trilogia dedicata a donne ricche, celebri e sole (Jackie del 2016, Spencer del 2021), il cui anti-modello è curiosamente rappresentato da un’altra opera del regista cileno (Ema, 2019), e nel farlo sceglie di portare alle estreme conseguenze estetiche e morali un discorso sulla crisi dell’individuo di incredibile attualità. È in questo senso che va letta la scelta quasi anti-mimetica di Angelina Jolie per il ruolo di protagonista: una bellezza naturale e innaturale al contempo, forse in grado di destare sospetti, ma certamente utile a dare corpo (e solo quello, perché le arie che si ascoltano sono quelle delle incisioni di Maria Callas) all’idealizzazione e alle proiezioni che è in grado di generare il potere della voce.
Voto: 4/5
Comments