top of page

Midsommar – Il villaggio dei dannati


2019, 148min.

di Ari Aster

con Florence Pugh, Jack Reynor, Vilhelm Blomgr


Recensione di Mauro Azzolini


Spoilerometro:



Una nevicata, all’alba, in mezzo alla foresta. Con questa immagine spettrale si apre il secondo lungometraggio di Ari Aster dopo Hereditary – Le radici del male (2018). Una manifestazione naturale del gelo che, già dalle battute iniziali, comincia a circondare la vita di una studentessa statunitense di psicologia i cui contatti umani sono dominati dall’ansia e sviluppati quasi esclusivamente sul piano virtuale. La comunità di cui Dani - questo il nome della protagonista - sa di far parte si sgretola in poche sequenze; è così che dopo avere perso la famiglia, immersa in una profonda solitudine, accetta l’invito di Chris, partner distante e in procinto di lasciarla, a seguirlo nel viaggio programmato con gli amici per l’estate: una settimana in Svezia all’interno di una comunità sui generis che festeggia l’arrivo del bel tempo.



Con questi ingredienti essenziali, ma già di per sé significativi, Aster (che è anche autore della

sceneggiatura) costruisce un racconto sulla perdita e sul ritrovamento dell’identità attraverso il confronto col male. I riti che si celebrano nel villaggio di Hårga - antichissimi e votati ad un intervento dell’uomo per assecondare e propiziare la natura nel ciclo di morte e rinascita - sono quanto di più distante possa esistere dalla quotidianità del gruppo di ventenni americani e sembrano violare ognuna delle leggi apprese fino a quel momento. Nell’atmosfera bucolica della valle scandinava tutti gli individui vestono allo stesso modo (un bianco la cui associazione al male ha degli antesignani eccellenti dall’Ejzenstejn di Aleksandr Nevskij all’Haneke di Funny Games) e sembrano essere partecipi di un’unica grande anima che include il luogo in cui si trovano, ma nulla di ciò che fanno risulta comprensibile e accettabile agli occhi dello spettatore. Le morti programmate e quelle improvvisate, i riti d’iniziazione e quelli di fertilità, appaiono infatti legati ad un modo di intendere la vita pre-culturale in cui sono solo i cicli stagionali a determinare le esistenze.



Il confronto con questa realtà radicalmente nuova è il motore che innesca il ribaltamento della situazione di partenza portando in breve tempo la dis-integrata Dani ad integrarsi in una nuova comunità sotto una nuova etica. Rovesciando uno degli schemi fondamentali dell’horror classico Aster utilizza questo racconto inquietante ma privo di dimensioni soprannaturali per mostrare come il vero potenziale dell’uomo non risieda nella capacità di sconfiggere il male (o ciò che percepisce come tale), ma in quella di comprenderlo e accettarlo gradualmente. L’armamentario tecnico di cui dispone il regista sembra rispondere all’esigenza di mostrare questa maturazione: i movimenti repentini e innaturali con cui la macchina da presa compie giri da 180 a 360 gradi prima bruschi poi sempre più morbidi, l’animazione di piante e fiori che conosce un crescendo nel finale, le dissolvenze ragionate che culminano in quella maestosa e trionfale dell’ultima inquadratura.



L’ordinarietà del male altro non è che relatività del male, ed è proprio in questo rifiuto della morale che risiede la grandezza del film.


 

Voto: 4/5

 


Comentarios


bottom of page