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Mulholland Drive

  • traumfabrikblog
  • 22 nov 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

2001, 146min.

Di David Lynch

Con Naomi Watts, Laura Harring, Justin Theroux


Recensione di Simone Giuffrida


Spoilerometro:



Come i surrealisti gettavano parole in aria per vedere come si disponessero cadendo, Lynch plasma il suo film - miglior regia a Cannes nel 2001 - originariamente pensato come episodio pilota di una nuova serie tv. Un trucco psicologico che alterna le fasi di sogno, subconscio e realtà.

«Una fantasmagoria voluttuosa», come la definì J. Hoberman del The Village Voice; tutto è relativo, possibile. Un gioco d'azzardo in bilico tra sogno e realtà. Ma chi è il sognatore? In Twin Peaks è Monica Bellucci a chiederlo a Lynch/Gordon Cole, personaggio che richiama il film Sunset Boulevard in cui lo star-system hollywoodiano viene deriso e accudito. Ogni spettatore è detective, ognuno è Cole o Lynch, che vede il film come un luogo che, se affascina, deve essere visitato più volte.

In Mulholland Drive non mancano personificazioni del malvagio, come il vagabondo dietro il pub Winkie's sul Sunset Boulevard (che ricorda la presenza nella roulotte di Teresa Banks in Fuoco cammina con me). In quello stesso angolo lavorava Frank Capra e lì stanziavano molte comparse con facce poco raccomandabili. Secondo Lynch vi si tenevano messe sataniche.



L'ipotesi che la prima parte del film sia un'illusione è giustificata dalla scena del ballo iniziale. Non vi sono riferimenti temporali, come accade nella fantasia. Betty Elms (Naomi Watts) soccorre Rita (Laura Harring) colpita da amnesia e che ha con sé una borsa con del denaro e una chiave blu. Tra le due nasce un’attrazione. Betty aspira a diventare un’attrice, al provino rimangono tutti a bocca aperta. Parallelamente un regista, Adam Kesher (Justin Theroux) - marito tradito - è alle prese con un film e riceve pressioni per ingaggiare come protagonista tale Camilla Rhodes, bionda come Betty e carnosa come Rita. A Rita affiora un nome, Diane Selwyn che, dopo una ricerca, viene trovata in putrefazione sul letto di casa in posizione fetale.


Vani gli sforzi in cui si cerca di riportare Betty alla realtà come il vaticino di Louise, una Cassandra che ricorda la ‘signora Ceppo’ in Twin Peaks. E non è un caso che Betty non sia presente quando Rita apre una scatola blu; il suo castello mentale crollerebbe. Il Club Silencio fa da spartiacque; come il Winkie è un luogo di verità probabile, in cui l’esecuzione continua anche quando gli artisti smettono. Ma un uomo avverte: «No hay banda», è tutto registrato, eppure noi sentiamo. È questo un sogno? Chi è chi? Il regista spreme le menti di fruitori e protagonisti. Betty è Diane, Rita è Camilla.

Ruolo chiave ha il cowboy, verosimile proiezione del padre di Diane; da enigmatico consigliere di Kesher a sveglia umana. Ma chi sveglia? Parte un piano ben diverso dove Diane paga in contanti un sicario per uccidere Camilla, perfida amante da cui è ossessionata, che annuncia il matrimonio con Kesher ad una cena dove si palesano le persone della vita di Betty. La chiave, segnale dell’avvenuta uccisione, lascia Diane in preda al rimorso spingendola al suicidio.

La figura femminile è essenziale, esiziale. «È lei la ragazza»; un’imposizione al regista, poi al sicario. Un paradosso che ricorda Arquette in Strade Perdute, con una struttura "a nastro di Moebius" qui ripresa e accentuata.

Che la vera protagonista sia Los Angeles, fabbrica dei sogni dove ognuno desidera diventare altro da sé? Come se il film fosse narrato dal punto di vista della città, identificata con la cinepresa che qui acquista vita propria.



Fondamentale è il ruolo giocato dal colore rosso: Rita ha capelli ramati, rossetto acceso e un vestito cremisi; accappatoio scarlatto come la lampada, la coperta e le tende che avvolgono la stanza di un piccolo “grande fratello” interpretato dallo stesso Michael Anderson, nano reso celebre da Twin Peaks (anche qui le tende rosse sono nodali). Cosa c'è quindi dietro l’uso di questo colore? Il sogno? Di sicuro Lynch crea il film che, per antonomasia, mette "in scena" e, va da sé, non è reale.


Voto: 5/5









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