Perché Caterina va in città è l’ultima commedia intelligente realizzata in Italia
- traumfabrikblog
- 24 apr
- Tempo di lettura: 15 min
Di Mauro Azzolini
Oggi che la commedia italiana sta vivendo una nuova epoca oscura (dopo quella degli agghiaccianti anni Ottanta), accade con maggiore facilità di notare come sia esistito un periodo in cui essa era in grado non solo di fare riflettere, ma anche di riflettere. Alla prima di queste due operazioni l’ondata di inebetimento complessivo non ha ancora del tutto rinunciato, anche se le riflessioni di cui prova ad ammantarsi sono spesso specchietti per le allodole, false profondità, giochi di prospettiva in cui il migliore dei risultati è ritrovarsi a constatare quanto mediocri siano le nostre esistenze o genericamente quanto si stesse meglio quando si stava peggio. Alla seconda, ossia alla capacità di riflettere – verbo da intendersi nella sua ambivalente accezione di rispecchiare qualcosa e di ragionare su qualcosa – ritengo che la commedia italiana abbia del tutto abdicato almeno una decina di anni fa, ai tempi di Smetto quando voglio, poi oggetto di una bieca operazione di accanimento terapeutico volta a trarne il massimo profitto.
Se osservato secondo queste coordinate, Caterina va in città rappresenta uno degli ultimi esempi di opera con cui, attraverso le risate, un film italiano prova ad offrirsi come momento di analisi e comprensione del tempo in cui viene alla luce, delle sue caratteristiche economiche e psicologiche, delle trasformazioni che al suo interno prendono corpo.

Caterina va in città esce nelle sale il 24 ottobre 2003. Nei mesi che precedono questa data l’economia del nostro paese è stata stravolta dall’adozione della moneta unica europea, il dibattito politico è stato assorbito dalla partecipazione alla guerra statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein, l’arrivo dell’adsl ha contribuito alla diffusione massiva dell’uso di internet in ambito domestico e i telefoni cellulari hanno registrato un boom di vendite raggiungendo i cinquantuno milioni di utenze. Il “bel paese”, così come lo conoscono gli italiani, sembra cambiare volto giorno dopo giorno e di conseguenza lo spazio con il quale ci si trova quotidianamente a confrontarsi si allarga notevolmente, superando i confini nazionali per proiettarsi su un piano continentale o, più propriamente, planetario. Certo, questo è un percorso lungo, cominciato nel secondo dopoguerra e accelerato dal boom economico e dalle trasformazioni tecno-politiche parallele alla caduta del Muro, ma è evidente a chiunque che gli anni a cavallo del 2000, quello del temuto millennium bug, costituiscano il momento decisivo per il coinvolgimento dell’Italia nel fenomeno della globalizzazione.
Il film di Paolo Virzì, già autore di brillanti spaccati sulla società italiana come Ferie d’agosto e Ovosodo, riesce in un’operazione solo apparentemente semplice: immortalare questo momento. Fotografa, quindi, l’ingresso dell’Italia nel «mondo grande e terribile» attraverso un combinato di strumenti retorici e dispositivi narrativi capaci di coinvolgere lo spettatore e attivarne i ragionamenti. Primo fra tutti il ricorso alle movenze specifiche di un genere che più di altri si presta a mostrare le evoluzioni, ossia il romanzo di formazione. Come ne Il rosso e il nero di Stendhal le vicende del giovane Julien Sorel fungevano da punto di vista privilegiato sul mondo post-napoleonico catapultato indietro dalla Restaurazione, così i non meno significativi eventi che costellano l’anno di vita di Caterina Iacovoni possono essere letti come metafora del gigantesco passaggio d’epoca del quale si diceva poc’anzi.

Caterina è poco più che una ragazzina quando i suoi genitori decidono di lasciare il paese d’origine per trasferirsi nella Capitale. Il trasloco da Montalto di Castro a Roma è lo shock con il quale si apre il film, l’evento traumatico che mette tutta la famiglia di fronte alla necessità di riscrivere le proprie coordinate. A volerlo è più di tutti il padre Giancarlo, docente frustrato, che cerca il riscatto per se stesso e il suo nucleo familiare attraverso lo scollamento dalla dimensione del paese, giudicata provinciale nella mentalità e nelle prospettive, prima ancora che da un punto di vista geografico. E mentre la moglie lo asseconda, persa tra pensieri non sempre logici, Caterina sembra subire la scelta, risultando al contempo affascinata dalle prospettive che la grande città potrebbe spalancarle.
L’ingenuità con cui Caterina guarda il mondo che la circonda è ricca di fiducia e di curiosità. E anche se intimorita dal contesto radicalmente nuovo nel quale si trova, le sue certezze non vacillano. Con l’approdo su questo pianeta sconosciuto che è Roma, con le sue stratificazioni complesse e i suoi codici specifici, un problema si pone immediatamente: quello del linguaggio. La genialità di Virzì sta anche in questo, nella semplicità con cui riesce a fare emergere una delle grandi contraddizioni del ventunesimo secolo attraverso lo scambio di battute fra tredicenni in classe. Durante una lezione nella quale si discute di episodi di violenza tra militanti di estrema destra e di estrema sinistra, il candore con cui Caterina svela il significato reale che per lei hanno i termini «centro sociale» (luogo di ritrovo per gli anziani) e «teste rasate» (quelle dei cuginetti quando prendono i pidocchi), decostruisce in pochissimi secondi l’inganno sul quale la contemporaneità ha costruito la propria forza. Il “mercato del lavoro”, il “capitale umano” e l’infinita serie di inganni lessicali che il capitale finanziario ha usato per indorare la pillola, per accelerare lo smantellamento delle economie nazionali (obsolete, certo, ma ancora in grado di garantire un minimo di diritti ai lavoratori) in funzione di quelle globali (e che cos’è la globalizzazione se non la «mondializzazione dello sfruttamento del lavoro», come la definiva Bruno Morandi?) emerge in quell’istante, in tutta la sua banalità. Ed emerge con una risata.

Sullo sfondo, ma poi mica tanto, continuano ad esserci loro, i genitori. Il padre Giancarlo, interpretato da uno straordinario Sergio Castellitto – qui in un picco di comicità immerso tra i ruoli più drammatici della sua carriera rappresentati dal precedente L’ora di religione (2002, di M. Bellocchio) e dal successivo Non ti muovere (2004, da lui stesso diretto) – convoglia nella sua figura di uomo del ceto medio il complesso di frustrazioni di una classe troppo ricca per potere battere i pugni insieme agli sfruttati, ma troppo povera per poter assaggiare un po’ di quel benessere a cui anni di sacrifici le hanno fatto credere di avere diritto. Non è né carne né pesce, ma sceglie di non rassegnarsi alla propria condizione e sfrutta in ogni modo i propri strumenti culturali e le opportunità che la vita gli offre per provare ad emergere. Gran parte dell’investimento emotivo e culturale di Giancarlo riguarda, infatti, Caterina. La ragazza è allo stesso tempo strumento e fine del riscatto cercato dal padre, sia perché attraverso l’offerta di nuove possibilità il padre immagina un futuro migliore per lei (migliore, almeno, di quello a cui ha avuto accesso lui); sia perché, nell’immediato, potrà beneficiare di riflesso della rete di contatti che gli adolescenti sono naturalmente portati a creare. Trascina la famiglia nella Capitale, tenta di pubblicare un romanzo, prova a sfruttare ogni canale comunicativo possibile, ma quando finalmente riesce a prendere parte, tra il pubblico, al Maurizio Costanzo Show, riesce a mettersi dalla parte del torto, sbraitando contro i rappresentanti delle “conventicole” che detengono il potere.
Ed è proprio il nodo delle conventicole a rappresentare uno dei nuclei tematici attorno ai quali ruota il livello di lettura più evidente del film. Il mondo nel quale Giancarlo si proietta, ma soprattutto quello nel quale si proietta Caterina, è un mondo consociativo, un mondo nel quale le differenze politicizzate (più che politiche) sono solo carta da parati che serve ad abbellire e differenziare i muri di una stessa struttura. È il mondo dei privilegiati, dei benestanti, di coloro i quali non si sono mai posti il problema di come arrivare alla fine del mese. È un mondo che può assumere i toni del soft power raffinatamente intellettuale dei genitori anticonformisti di Margherita, dove la madre (Galatea Ranzi) è una scrittrice affermata incapace di comunicare con la figlia e il padre (Flavio Bucci) un professorone ormai distaccato dai problemi del mondo. Ma è anche il mondo del potere vero – economico e politico – della famiglia di Daniela, tutto proiettato sulla figura del padre (Claudio Amendola) (1), sottosegretario rampante della nuova destra di governo alle prese con la necessità di svincolarsi da un passato ingombrante.

Un mondo chiuso, dunque, in cui il potere è prerogativa di piccoli gruppi di individui, cerchie ristrette (le conventicole appunto), non sempre chiaramente perimetrabili. Dove ciò che accade viene deciso da entità non riconoscibili e in virtù di criteri non meritocratici, con buona pace della democrazia che finisce per schiantarsi su un muro di indifferenza. Perché questo mondo è il mondo delle élite, dove solo chi è abbastanza ricco (o abbastanza cool) può essere uguale agli altri; chi non se lo può permettere è automaticamente tagliato fuori. È contro questo mondo, emblematicamente rappresentato dal parterre del Maurizio Costanzo Show, che Giancarlo, una volta invitato ad assistere tra il pubblico alla trasmissione con i suoi alunni, si scaglia violentemente. Prende la parola, trattiene il microfono nonostante gli inviti a lasciarlo, alza la voce e finisce per farsi cacciare dal teatro. In questo climax vengono al pettine tutti i nodi di quel tentativo non riuscito di migliorare il proprio status. Escluso dai radical chic, non considerato dagli uomini delle istituzioni, Giancarlo gioca la sua ultima carta provando a raccontare la sua storia in diretta tv. L’epilogo sarà drammatico. Lo spettatore viene a sapere, infatti, che sarà proprio la reazione scomposta ad uno degli sfottò scaturiti da quel momento di tracotanza a costargli il posto a scuola.

Nel riesaminare a distanza di tempo la parabola di Giancarlo, così come quella di Caterina, non si può fare a meno di pensare alle vicende del nostro paese. Il mondo con il quale si confrontano i protagonisti del film non è tanto diverso dall’Unione Europea e dai suoi rivoli di istituzioni parallele. Le nuove regole imposte dall’adozione della moneta unica, l’allontanamento progressivo dei centri decisionali, l’idea stessa di un nucleo compatto di detentori del potere che superando le loro appartenenze politiche convergono unanimemente nella gestione dell’economia di mercato: tutti questi elementi sembrano aderire perfettamente all’epopea dei perdenti di Caterina va in città se osservati dal punto di vista di un paese come l’Italia, i cui cittadini passano in un attimo da soggetti a cui è riconosciuto lo statuto di detentore (indiretto) del potere e a cui è garantita la possibilità di individuare coloro ai quali questo potere viene delegato, a ignari e spaesati membri di un insieme vasto e indefinito in cui non si conta nulla, perché in fin dei conti si è nulla.
Prefigurando lo scontro tra questi due mondi, la verbosità rabbiosa e meritocratica che vedrà il “popolo” scagliarsi contro la “casta”, il film diventa persino profetico. Non solo perché anticipa di qualche anno le tendenze che saranno irreggimentate dal grillismo delle origini e che daranno luogo alla massa critica del Movimento Cinque Stelle (2). Ma soprattutto perché, al di là delle movenze che questo tentativo di rivalsa assume, identifica una sconfitta al termine di questa parabola. Giancarlo, vedendo fallire anche l’ultimo colpo di coda, deciderà di sparire silenziosamente, abbandonando la famiglia per un viaggio in moto in cui spera di poter ritrovare la propria libertà. Il suo è un ripiegamento nel privato che non ha nulla di diverso dall’allontanamento delle decine di migliaia di cittadini (non solo italiani) dalla politica negli ultimi anni. Alla de-sostanzializzazione delle istituzioni corrisponde inevitabilmente un disaffezionamento nei confronti della partecipazione. E se Caterina è ancora troppo giovane e ingenua per capirlo, Giancarlo conosce anche troppo il mondo per avere ancora la forza di crederci.

Un po’ in disparte rispetto a Caterina e Giancarlo c’è Agata, madre della ragazza. A dare corpo al personaggio è una Margherita Buy meno nevrotica di quanto gli ultimi vent’anni ci abbiano abituato a vedere. Il personaggio è tutto giocato sul confine, a volte impercettibile, tra la stupidità irrimediabile e la disattenzione a ciò che sta intorno. Per gran parte del racconto, infatti, non si comprende del tutto se questa donna sia con la testa tra le nuvole, presente a se stessa solo quanto basta a compiere azioni legate alla dimensione domestica, o se il suo non sia invece un inebetimento vero e proprio, determinato da una vita di rinunce, vissuta all’ombra di un marito ingombrante e sempre pronto a giudicare e guidare le sue scelte. Certo è che, se non fosse per Agata, la famiglia Iacovoni non andrebbe avanti. È lei a guidare la macchina quando partono da Montalto di Castro, è lei a prendersi cura dell’anziana zia del marito nella casa romana della quale si trasferiscono, ed è sempre lei a tenere insieme i pezzi anche dal punto di vista psicologico. Quando Caterina si scontra con l’insensibilità delle sue coetanee, quando Giancarlo va in frantumi dopo avere perso reputazione e lavoro, è Agata ad avere parole di conforto, sguardi, carezze per la sua famiglia. Tuttavia, nell’economia del racconto, il suo è un ruolo passivo.

A differenza di Giancarlo, che dà corpo alla sua proiezione verso il mondo prevalentemente parlando, e a differenza di Caterina, che invece agisce, sperimenta, vive, Agata osserva. In questa figura capace di piegarsi senza spezzarsi, ma mai (o quasi) in grado di alzare la voce, si ritrova un’altra dimensione fondamentale del vissuto dell’italiano moderno: quella dello spettatore. Agata vede accadere gli eventi intorno a lei e quasi mai si trova in grado di determinarli, accetta acriticamente ciò che le viene detto, esegue ciò che le viene richiesto, anche a costo di sfociare nel ridicolo o di agire inconsapevolmente contro il proprio interesse. La sua esperienza è quella dell’uomo della seconda metà del Novecento, fruitore passivo dei grandi mezzi di comunicazione di massa e in particolare della televisione. Non è un caso che durante tutto il film i televisori accesi nelle stanze in cui si muovono i personaggi siano numerosi. A casa Iacovoni, per esempio, è sempre acceso durante i pasti che riuniscono la famiglia a tavola, e che lo si guardi o meno, svolge il suo ruolo di punto di riferimento, occupa un posto specifico nello spazio domestico, diventando in alcuni casi quasi un commensale al quale rivolgersi. Emblematica in questo senso l’immagine di Giancarlo che si trova a commentare con snobismo la pettinatura di Roberto Mastrosimone, sindacalista della Fiom intervistato all’epoca delle proteste contro la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, parlando direttamente con lo schermo («ma tagliate questo riccio, ma questo è modo di presentarsi?»).
La televisione serve a definire gli spazi, come nel caso della scuola in cui viene mandato ad insegnare Giancarlo, da cui «se n’è appena andata la troupe televisiva di una fiction ambientata in carcere», ma soprattutto è fondamentale per attribuire valore ai contesti o ai soggetti. Rossi Chaillet, padre della giovane Margherita, è un personaggio importante in quanto «professore, quello col ciuffo lungo, grigio, un po’ vanitoso, che va sempre in televisione»; Manlio Germano, personaggio politico, è circondato dalle telecamere quando torna a Sabaudia per un matrimonio e lo vediamo persino ospite di Porta a Porta in uno dei classici battibecchi televisivi con un cammeo di Giovanna Melandri. Lo stesso mondo nel quale la famiglia Iacovoni si trova catapultata è un mondo che segna lo scarto con il precedente grazie alla televisione. E come in una sorta di Truman show autoreferenziale, tale per cui gli stessi individui vengono vissuti sia come soggetti in carne e ossa che come oggetti dello sguardo di spettatori, saranno prima Caterina (intervistata dalle telecamere di RaiSat ad una festa) e poi soprattutto Giancarlo (con la sua performance sopra le righe da Maurizio Costanzo) a finire sul piccolo schermo. Le loro vicende, scrutate a un primo livello dallo spettatore del film e ad un secondo da Agata, raggiungono un terzo livello nel momento in cui si fanno materia televisiva, divenendo possibile punto di caduta dello sguardo di chiunque: un’apoteosi raggiunta da Giancarlo, del quale naturalmente, si occuperà Chi l’ha visto? dopo la scomparsa.

Davanti alla televisione, o meglio, sempre con la tv accesa in sottofondo, prende corpo una delle scene che danno profondità al personaggio di Agata. La situazione è la seguente: dopo aver sentito in bagno Daniela e le compagne sparlare di lei, Caterina esplode per la prima volta, spinge la compagna e per tutta risposta viene spinta da lei a terra. A questo punto prova ad aggredirla con un bastone. Il tutto finisce in una lite tra Margherita e Daniela, mentre Caterina scappa dalla scuola facendo perdere le sue tracce. Giancarlo viene convocato dal preside e assiste alla scena che più di ogni altra rafforzerà in lui la convinzione delle conventicole che controllano il paese quando vede andare via, quasi a braccetto, Germano e Rossi Chaillet, ufficialmente rappresentanti di due modi di pensare e vivere il mondo radicalmente diversi, in realtà uniti dal loro privilegio economico. Dopo qualche ora di fuga Caterina torna a casa. La famiglia si ritrova a tavola, profondamente scossa.
Parla Giancarlo: «Voglio chiederti scusa Caterina, tu sei come me, noi siamo due vittime. Avresti dovuto vedè, quei due, i padri delle...amiche tue, pappa e ciccia, tutti e due dello stesso partito, quelli che sanno come si sta al mondo. Le figlie, le amiche tue, fatte con lo stampino. Identiche. Quella è gente privilegiata. Noi per loro siamo niente». Agata prova ad interromperlo, «Giancarlo per favore..» e lui subito «no, sta volta famme parlà», «sta volta famme parlà perché è importante. Noi, noi (e quando scandisce questo secondo noi l’inquadratura diventa una panoramica della sala da pranzo, con Giancarlo seduto, Agata in piedi alla sua destra, Caterina in piedi alla sua sinistra e di fronte a lui il televisore con il Tg3 in onda) siamo persone che possono contare solo sulle proprie forze. Allora io una volta pensavo che era proprio grazie a questo che ce la potevamo fare. E invece mi sono sbagliato, è tutto inutile Caterina». Agata riprova «ti prego...», ma Giancarlo sbatte il pugno sul tavolo urlando «è così! Ci escludono, ci trattano come giocattoli! Siamo dei pupazzi che non si possono permettere un cazzo nella vita. Capito? Nemmeno una soddisfazione sul lavoro, una bella casa, un po’ di rispetto da parte degli altri, niente!». Cala il silenzio, Giancarlo prende il telecomando per ridare volume alla tv e proprio nel momento in cui Agata sta per iniziare a servire la pasta, un piatto le sfugge dalle mani, schiantandosi a terra in mille pezzi.
Agata coglie immediatamente (proprio in forma non-mediata) il potenziale di quel gesto e comincia a spaccare a terra i piatti uno dopo l’altro. Il suo non è il gesto di frustrazione di una Connie Corleone, umiliata dal marito. Al contrario è un gesto liberatorio, catartico, che ha la capacità di scuotere tutta la famiglia. Agata mostra di esistere, di essere parte di quella insofferenza che attanaglia la casa. Anche lei si dichiara vittima di un mondo in cui avrebbe voluto essere qualcos’altro, ma si è dovuta accontentare. Se quella di Giancarlo al Maurizio Costanzo era stata soltanto una boutade, qualcosa di estemporaneo che si esauriva nel momento stesso in cui accadeva, qui i punti di caduta drammatici innescano una serie di deflagrazioni a catena. La prima a esplodere è Caterina, che in modo goffo e scomposto prova ad affermare la sua distanza morale dal mondo falso nel quale è costretta a vivere; poi tocca a Giancarlo, con il monologo che offre una parziale chiave di lettura al film; infine è la volta di Agata, su cui si sono accumulate fino a quel momento tutte le tensioni senza che potessero trovare modo di venire a galla.

Ciononostante per tutto il corso del film si ride, si ride tanto. Ma ciò che è salta all’occhio allo spettatore di oggi è ciò di cui si ride. Prima delle vuote paranoie del politicamente corretto che hanno depotenziato l’ironia fino a ridurla a piccolo esercizio perbenista, infatti, era possibile ridere in un modo che oggi apparirebbe irrispettoso. È il caso della sbadataggine di Agata, continuamente sottolineata dal marito, o dell’ingenuità di Caterina; è il caso della sordità della nonna di Daniela, della goffaggine del cuginetto Cesarino o del provincialismo della famiglia a Montalto di Castro. Ciò che conta, come chiunque sia dotato di intelletto è in grado di comprendere, non è l’oggetto della risata ma il contesto nel quale questa risata si inserisce. L’operazione di Virzì e di Francesco Bruni (autori della sceneggiatura) risulta intelligente poiché ha come obiettivo quello di mettere in mostra le capacità, in un certo senso autodifensive, che gli esseri umani mettono in campo nel momento in cui si trovano in difficoltà. Perché quella dei protagonisti del racconto è chiaramente una vita complessa, nella quale una risata innocua può aiutare a mettere da parte per un’istante la sofferenza. Riuscire a far immedesimare in questo meccanismo lo spettatore – per suo conto, come sempre accade, protagonista di un momento delicato – non significa offrire un modello di comportamento, elogiare uno standard di interazioni basato sull’assenza di sensibilità, ma solamente fornire uno spazio di decompressione dall’ondata di informazioni e situazioni dolorose che la vita offre quotidianamente.
Da questo punto di vista, almeno per quanto riguarda la commedia d’autore, il film testimonia uno degli ultimi momenti di libertà che il cinema italiano è stato in grado di vivere. Ed è forse, in parte, anche a questa perdita di leggerezza che va attribuito il tracollo che il genere ha vissuto negli anni a seguire. Perché oggi, al di là del calderone comico che da Checco Zalone giunge ai più recenti cinepanettoni, nessuno nel nostro paese sembra più in grado di provocare una risata. Una risata irrispettosa? Scorretta? Ambigua? È probabile, ma certamente sincera. E anche intelligente, perché inserita nel quadro di un discorso più ampio sui tempi che si stanno vivendo, sulle dinamiche che coinvolgono il nostro mondo mentale e materiale. Una risata necessaria, poiché in assenza di essa spesso è impossibile riuscire a trovare il distacco per osservare le cose.

Caterina va in città, alla luce di quanto osservato, rappresenta dunque un film decisivo tanto per l’osservazione di alcune delle dinamiche che hanno caratterizzato uno dei passaggi storici più importanti per il nostro paese, quanto per la comprensione del riflesso che esse hanno avuto sulla produzione artistica. La forza dell’operazione cinematografica, però, sta proprio nel non aver voluto porre questi elementi in primo piano, rifiutando un pedagogismo da caricatura. L’attenzione è tutta sul racconto, su questo diario letto ad alta voce (e proprio sulla voce di Caterina e sul suo utilizzo nello spazio privato del canto lirico – unico vero spazio di libertà che la ragazza riesce a trovare – sarebbe interessante approfondire ulteriormente le indagini) da una giovane donna di tredici anni allo stesso tempo fiduciosa e intimorita dal mondo (3). Per sceglierne l’interprete si racconta che Paolo Virzì avesse effettuato un lunghissimo casting nelle scuole della Capitale fino ad arrivare alla scelta di Alice Teghil, in virtù del suo «sano disinteresse per la cinepresa, in linea con il personaggio di Caterina».

Della giovane attrice, dopo questo film e un paio di fiction televisive, si sono perse le tracce. Per quanto è possibile reperire sul web sembra che abbia abbandonato la recitazione per dedicarsi allo studio, divenire psicologa e ottenere un dottorato di ricerca in Neuroscienze del comportamento. Lontana dai riflettori, per scelta. Così come il personaggio interpretato da Sergio Castellitto, che vediamo in sella alla sua motocicletta in giro per paesi esotici sui titoli di coda. Spariti, in un certo senso, come è sparita la commedia italiana capace di riflettere.

Un’interpretazione, quella di Claudio Amendola, che persino Tullio Kezich definì «sorprendente» recensendo il film (Corriere della sera, 25 ottobre 2003).
Per un approfondimento su questa “profezia” politica si rimanda alla lettura del contributo di Alice Valeria Oliveri su Esquire (https://www.esquire.com/it/cultura/film/a45625871/caterina-va-in-citta-20-anni/).
È forse anche questa forma del racconto in prima persona, prossimo alla confessione o al racconto da seduta di psicoterapia, ad autorizzare letture del film come quella in chiave psicanalitica realizzata da Margherita Silvestri (https://www.aippiweb.it/visti-e-rivisti/caterina-va-in-citt-commento-di-m-silvestri).
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