2010, 139min.
di Lee Chang-dong
con Yun Jeong-hie, Lee Da-wit, Kim Hee-ra
Recensione di Arianna Alessia Armao
Spoilerometro

Come si può dire senza parole? Quando la memoria avvizzisce – sia per malattia o per naturale decadimento – i concetti sbiadiscono e i termini più semplici si fanno nebulosi. Eppure Yang Mi-ja vuole scrivere la sua prima poesia: vede le cose piuttosto chiaramente, le sente, ma non riesce ad appuntare altro che minime impressioni.

La sua vita non è quella di una tranquilla pensionata, e la sua marcia verso il ritrovamento delle parole è costantemente interrotta da una quotidianità logorante, a partire dal suo lavoro di cura, dai problemi economici e di salute, da una figlia distante e da una società corrotta e impotente.

Non solo. La tenace compostezza tipica di un certo cinema giapponese[1] si colora del noir di sapore più propriamente sudcoreano, e il dramma interiore di Yang Mi-ja viene appesantito dall’inquietante presenza di un nipote degenere, protagonista del più crudo dei fatti di cronaca. Si perde dunque l’essenziale, ma non l’equilibrio. Il film tutto rimane toccante, garbato, coinvolgente.

Si può dire, anzi, che sia proprio grazie alle intense emozioni che Yang Mi-ja riesce ad appropriarsi della sua poesia, unico e definitivo gesto di ribellione in comunione con una piccola anima da riscattare. In un mondo di sedicenti poeti e di facoltosi padri di famiglia pronti a seppellire qualsiasi colpa sotto il peso delle banconote, Yang Mi-ja dedica le sue ultime parole alla sorella maggiore: la sola figura, in tutta la narrazione, ad essersi presa cura di lei in un passato vivido e struggente[2].

Una chiosa: il film di Lee Chang-dong potrebbe apparire come una pretestuosa mescolanza di considerazioni (dall’Alzheimer alla condizione femminile), ma si tratta piuttosto di un ritratto, non a caso ricorrente in cinema e letteratura,della vita di molte persone congelate tra lavori malpagati, istituzioni – famiglia in primis –, debiti e malattia mentale. La loro impossibilità di fuga non è puramente fittizia, e riguarda da vicino tanto la società orientale quanto noi che la osserviamo.
[1] Chi scrive pensa in particolare a Ritratto di famiglia con tempesta di Kore’eda e a Le ricette della signora Toku di Naomi Kawase, entrambi peraltro successivi (2016 e 2015). [2] Anche in questo caso occorre un richiamo giapponese: Seni e uova di Mieko Kawakami, del 2008, ulteriore ritratto di resistenza sorerna alle tristi condizioni di indigenza economica.
Voto 3.5/5
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