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Rapito

2023, 134min.

di Marco Bellocchio

con Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Paolo Pierobon, Enea Sala, Leonardo Maltese


Recensione di Mauro Azzolini


Spoilerometro:



La filmografia di Marco Bellocchio, fatta eccezione per pochi titoli sparsi nel tempo, può essere letta senza forzature come un lungo e approfondito discorso sul potere. Un discorso nel quale il punto di vista adottato è quello dell’individuo che si confronta con le istituzioni (famiglia, chiesa, stato) per mezzo delle quali il potere trova espressione. Alla base di Rapito, ventiseiesimo lungometraggio del regista emiliano, c’è ancora la volontà di portare avanti questa riflessione.



Il terreno scelto questa volta per il racconto è quello dell’Italia (a dire il vero in corso di formazione) dei decenni 50-70 dell’Ottocento. La storia, tutta vera e tutta ampiamente documentata, è quella del piccolo Edgardo Mortara, figlio di una benestante coppia ebraica bolognese che viene sottratto alla famiglia e consegnato alle autorità ecclesiastiche per essere cresciuto secondo le leggi e i valori della Chiesa cattolica apostolica romana. Il pretesto è offerto dal presunto battesimo operato sul bambino in tenerissima età da parte della balia che se ne prendeva cura, naturalmente senza che i genitori ne fossero a conoscenza.


Il film segue la vicenda inizialmente dagli occhi del padre (Russo Alesi) e parzialmente da quelli della madre (Ronchi) mostrando allo spettatore la brutale violenza con cui un’autorità – religiosa e politica se si pensa che all’altezza cronologica in questione Bologna fa ancora parte dello Stato Pontificio – è in grado di esercitare il proprio arbitrio sui singoli. Tale violenza, oltretutto, è acuita dalla solitudine con cui Salomone e Marianna si trovano a dare battaglia. Il loro isolamento così come l’incapacità di trovare ascolto sono le stesse dell’intera comunità di cui fanno parte, quella ebraica, schiacciata tra l’aggressività estetizzante con cui si scaglia contro il papa e il servilismo rassegnato con cui si inchina a baciarne i piedi.



Ma in questa storia non c’è solo il potere subito e rifiutato di cui sono espressione i coniugi Mortara. Mentre, infatti, i due provano in ogni modo (legale e illegale) a riportare il figlio a casa, il piccolo Edgardo sembra crescere, in modo del tutto fisiologico, accettando il contesto nel quale è stato inserito. Il bambino spaesato (Sala) che la sera recitava le preghiere ebraiche sussurrando sotto le coperte per non farsi sentire, lascia il posto in poco tempo all’adolescente seminarista (Maltese) per il quale il rifiuto dell’autorità che l’ha sottratto alla vita che gli spettava diventa nulla di più di un riflesso scomposto, uno goffo sfogo del ribellismo giovanile, che non mette in discussione le credenze ormai radicate.


C’è quindi un potere subito (e in modo differente respinto o accettato), ma c’è anche un potere esercitato. Il Pio IX a cui presta il volto Paolo Pierobon è una delle figure più complesse tra quelle che attraversano la vicenda; nel suo essere la più connotata e conosciuta da un punto di vista storico, essa è anche quella attraverso cui è possibile reperire gli elementi più evidenti di critica oggettiva (e non soggettiva come nel caso della famiglia) all’assolutismo e all’ottusità conservatrice della Chiesa di metà XIX secolo. Questo papa che non rinuncia all’affermazione del proprio ruolo, del proprio rango, del proprio potere nonostante il mondo si stia velocemente sgretolando intorno a lui è una delle maschere storiche più efficaci del cinema di Bellocchio (al pari del Mussolini interpretato da Filippo Timi e del Moro di Roberto Herlitzka).



La scelta programmatica di non avere un unico punto di vista oltre a rappresentare un portato della trasposizione dal saggio storico di Daniele Scalise, adattato con Susanna Nicchiarelli (regista di Cosmonauta) ed Edoardo Albinati (Premio Strega con La scuola cattolica), è utilizzata da Bellocchio per praticare la scomposizione analitica del potere nelle differenti componenti soggettive appena osservate.


Più che un film, Rapito, sembra dunque un testo socio-politico, un prodotto culturale le cui ragioni non sono immediatamente estetiche. Ma la straordinaria fotografia di Francesco Di Giacomo e le musiche di Fabio Massimo Capogrosso stanno lì a ricordarci che si tratta ancora, inequivocabilmente (e inevitabilmente) di cinema. Un cinema che mostra di conoscere la propria storia (è un caso che il primo film proiettato in Italia sia stato nel 1905 La presa di Roma di Filoteo Albertini, dedicato proprio alla Breccia di Porta Pia?) e di saperla padroneggiare per interrogarsi sulla Storia con la S maiuscola.


Voto: 3,5/5

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