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Ritorno a Seoul

2022, 119min.

di Davy Chou

con Ji-Min Park, Oh Kwang-rok, Guka Han, Yoann Zimmer


Recensione di Laura Caviglia


Spoilerometro:




Di produzione franco-tedesco-belga, ma modellato su un perno emotivo di stampo orientale, dove i legami di sangue e le radici culturali si diramano nel rappresentare una necessità/gabbia psichica e viscerale, Ritorno a Seoul è un dramma presentato al festival di Cannes del 2022 ed ampiamente elogiato dalla critica.

Freddie è una ragazza di origini coreane che, rimasta orfana quando ancora in fasce, viene adottata da una famiglia francese e a Parigi trascorre i primi venticinque anni di vita. Il film si apre in fieri, con il suo ritorno a Seoul, nel mal celato intento di ricongiungersi ai genitori biologici.



Ciò che viene narrato è l’evolversi del non-rapporto tra Freddie e i genitori, e di come questo influenzi il modo di vivere della ragazza, in un periodo di circa dieci anni. Il fulcro dell’osservazione è lo scontro tra la necessità di ricavare dall’esterno informazioni che permettano di costruire una salda e univoca percezione del sé e un sé che sbatte contro le pareti di questa necessità, come una farfalla impazzita.

Nei dieci anni in cui si sviluppa la storia la protagonista ricostruisce e rade al suolo più volte la sua vita, presentandosi di volta in volta allo spettatore sotto diverse sembianze, per poi rivelarsi nel suo essere, sempre spinta dalla stessa necessità (per questo inizialmente il lungometraggio venne presentato con il titolo Tutte le persone che non sarò mai).



Freddie ha una personalità “disfunzionale”, se decidiamo che questo termine ha un qualche significato, ossia che non indichi una semplice fuoriuscita dai canoni comportamentali plasmati da una società di per sé disfunzionale. La protagonista risulta contemporaneamente frammentata e ben salda su se stessa, nel senso che esiste un fulcro alla base del suo essere e agire frammentato; scivola nell’abuso di alcol e sostanze per compensare alle proprie mancanze, può amare sia donne che uomini e più persone contemporaneamente e può, di fatto, non amarne nessuna. Freddie può eliminare dalla propria vita affetti importanti con uno schiocco di dita, o, talvolta, essere allontanata dai suoi affetti per il suo modo di essere, nell’intento involontario di ricostruire e affrontare di volta in volta il trauma dell’abbandono.

A spingerla ad agire è l’impossibilità di costruire un rapporto di normalità con il ritrovato padre, un alcolista ossessivo e asfissiante, ma soprattutto l’incomprensione del rifiuto della madre biologica di volerla incontrare. Freddie rimane quindi una persona sola, nella perenne speranza di riuscire a rattoppare le scuciture che stanno alla base della sua confusa trama emotiva.


I punti cardine della psiche dei personaggi ci vengono presentati attraverso il loro modo di agire, più che attraverso i dialoghi. I personaggi stessi si osservano tra di loro, provano a capirsi, scrutando questo agire, così come fa lo spettatore. Il movimento è trainato dall’abilità e dal carisma dell’attrice protagonista (Park Ji-Min), e da ottime scelte di regia: la prossemica e il tempo di ripresa di alcune scene (a tratti volutamente più lungo del necessario) riescono a dare respiro ad alcune delle verità insite in questa storia, che diversamente non potrebbero essere colte con altrettanta delicata poetica. La colonna sonora sostiene ulteriormente le scene, spaziando dall’elettronica, alla dark-wave a Johann Sebastian Bach.

Sembrerebbe esserci un lieto fine, anche se lasciato alla libera interpretazione dello spettatore: Freddie invierà un messaggio alla madre in cui scriverà di essere felice e di sperare che anche lei lo sia. Per scoprire se il messaggio arriverà mai a destinazione non resta che guardare il film.




Voto: 3/5


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