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The Brown Bunny

2003, 93min.

di Vincent Gallo

con Vincent Gallo, Chloë Sevigny


Recensione di Cristiano Lo Presti


Spoilerometro



Un motociclista al termine di una gara intraprende un viaggio solitario in furgone verso Los Angeles. Comincia così il secondo controverso lungometraggio di Vincent Gallo, che dopo la calorosa accoglienza ottenuta da Buffalo ’66 (di cui ho già parlato in passato) si gioca, è proprio il caso di dirlo, la carriera con questa pellicola che risulta per molti versi estrema.

Un road movie atipico in cui per una settantina dei 93 minuti di durata c’è il solo Gallo in silenzio, spesso e volentieri inquadrato così ravvicinatamente di profilo da offrirci i primi piani più anticonvenzionali di cui abbia memoria, intervallato da inquadrature traballanti al ritmo del furgone in moto che osservano la strada attraverso il parabrezza sporco.



Pochissimi dialoghi in presa diretta con tanto suono ambientale da passare quasi in secondo piano. Persino nel lungo confronto finale con il personaggio interpretato da Chloë Sevigny, prima e dopo “quella scena”, i due a tratti parlano, o forse sarebbe più corretto dire bisbigliano, talmente sottovoce da risultare appena udibili anche con le cuffie.

Eppure mi domando con quale presunzione e arroganza si possa giudicare tutto questo “sbagliato”. Inusuale, artigianale, originale piuttosto. Come un album di Daniel Johnston o del primo John Frusciante, come Gummo di Harmony Korine, The Brown Bunny è un bellissimo film lo-fi. Imperfetto, certo, ma dubito possa lasciare indifferente chiunque sia vivo.


Vincent Gallo scrive, dirige, recita (quasi solo lui), produce, edita. Inoltre si occupa dei set, dei make up, della fotografia. A questo punto mi stupisce che non abbia composto anche la colonna sonora, essendo lui stesso un musicista abbastanza affascinante. Se proprio si volesse muovere una critica lo si potrebbe definire autoindulgente e narcisista, ma non mi sembra che Bardo, la cronaca falsa di alcune verità di Iñárritu sia meno autoindulgente, autoreferenziale e masturbatorio. Del resto The Brown Bunny è un’opera personalissima. Non è forse questo che ci si aspetterebbe dal cinema cosiddetto “d’autore”?



The Brown Bunny parla di fantasmi, non nel senso di Ghostbusters, piuttosto dei traumi del nostro passato che ci perseguitano dappertutto; a volte non ci rimane altro che affrontarli a muso duro nella speranza di lasciarceli alle spalle. Un po’ come Kill Bill di Tarantino.

L’interpretazione di Vincent Gallo è intensa, commovente, straziante. E scommetto che se non fosse per quella scena (sì, ci arriviamo) adesso ne parleremmo come di una grande e sensibile voce del cinema indipendente americano. Però mi rendo conto che parlare di questo film senza citarne la sequenza più nota e discussa, probabilmente la scena più incriminata di tutto il cinema degli ultimi trent’anni, che in un colpo solo è riuscita a minare non solo la carriera del regista, ma anche ad interrompere l’ascesa di Chloë Sevigny, astro nascente del cinema anni ’90, sarebbe un po’ come non vedere l’elefante nella stanza.

Dopo una lunga ed estenuante ricerca di Daisy, la sua ex fidanzata, lei gli fa visita in albergo. Qui la pellicola raggiunge l’apice del suo climax con una lunga sequenza che è insieme la più toccante e – come dicevo - straziante, nel confronto tra i due protagonisti, intervallato da una scena, che immagino nelle intenzioni del regista avesse una valenza catartica e liberatoria, di sesso orale non simulato.


Apriti cielo! È successo il finimondo.


Volete dirmi che una scena così esplicita, pornografica se vogliamo, lo renda meno cinema? Sempre ammesso che un film pornografico in sé e per sé non possa essere degno di chiamarsi cinema. Come se di film belli o brutti, svogliati, mediocri o ben realizzati non sia pieno anche il cinema non pornografico. Love di Gaspar Noè è zeppo di scene di sesso non simulato e non per questo non è un buon film.


Chiaramente quella di Vincent Gallo è una scelta autoriale che può piacere o meno, questo non si discute; ma delegittimare un’opera e conseguentemente l’intera carriera di un autore per via delle scelte fatte dovrebbe essere, quello sì, immorale. A parte che così facendo crolla l’intero impianto su cui si basa il concetto stesso di “cinema d’autore”.

Quando venne presentato a Cannes la critica lo stroncò, sostenendo che non avrebbe dovuto neanche essere ammesso al festival. Il critico italiano Paolo D’Agostini scrisse su Repubblica, e qui cito testualmente perché mi fa molto ridere, «un festival così importante non dovrebbe essere complice di chi il cinema lo vuole morto»[1].


Ecco, questo è quello che penso del valore della critica.


Voto: 3.5/5

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