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The Substance

2024, 142min.

di Coralie Fargeat

con Demi Moore, Margaret Qualley, Dennis Quaid


Recensione di Valentina Corona


Spoilerometro:





Elisabeth Sparkle (Demi Moore), a ridosso dei cinquanta, è ormai da decenni la scintillante conduttrice di un programma televisivo di successo, in cui svolge esercizi di aerobica incitando le spettatrici a seguirla. Un bel giorno, però, il proprietario dell’emittente per cui lavora – un uomo sulla sessantina viscido e arrogante – le dà il ben servito, deciso a sostituirla alla conduzione con una donna più giovane e attraente di lei. Profondamente turbata dalla possibilità di non trovarsi più al centro dei riflettori, Elisabeth ha un incidente alla guida della propria auto, da cui esce miracolosamente illesa. In ospedale, tuttavia, un infermiere le fa conoscere The Substance, un’azienda che promette di dare vita a una «versione migliore» di sé. Inizialmente scettica, Elisabeth cede infine all’idea di saperne di più, e si fa spedire il kit che le permetterà di creare una sé più giovane, bella e attraente.



The Substance, secondo lungometraggio della francese Coralie Fargeat, rileva immediatamente i propri contatti col mondo della favola, ancor prima di palesare quelli col genere del body horror: per creare l’altra-sé e consentirle di sopravvivere, infatti, Elisabeth è chiamata a rispettare alcune regole, prima tra tutte quella di accettare che la “matrice” e la “creatura” si alternino rigorosamente alla vita per sette giorni ciascuna; in secondo luogo, poi, la donna dovrà tenere sempre a mente l’unitarietà delle due versioni, non perdendo di vista il fatto che, a dispetto delle apparenze, esse costituiscono due facce della stessa persona. E difatti la versione migliore di Elisabeth, Sue (Margaret Qualley), vede la luce proprio da dentro di lei, in una partenogenesi che ha luogo dalla schiena della ex diva in una sequenza dal sapore splatter, a partire dalle sue stesse cellule. Come in tutte le favole, si diceva, le regole esistono però per essere infrante, e, una volta nata, Sue finirà ben presto per risucchiare il tempo di Elisabeth, prendendo spesso e volentieri il suo posto al di là dei sette giorni consentiti, con esiti insospettabili.



Con il suo racconto a tratti grottesco, premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura, Fargeat parla di donne e di bellezza, del rapporto che le donne intrattengono col proprio aspetto con un focus specifico sul mondo dello spettacolo, senza nascondere tuttavia l’aspirazione a un ragionamento di ampio respiro, in cui a essere osservato è, più in generale, il corpo delle donne in un sistema improntato alla sessualizzazione e alla logica del profitto. 

Fargeat, però, va oltre le astrattezze, e la lente della sua macchina da presa finisce col soffermarsi sui meccanismi psicologici in cui le vittime del sistema rimangono imbrigliate – meccanismi di cui, di fatto, si alimentano gli ingranaggi del suo horror. È così che, in un climax ascendente, Elisabeth viene sin dall’inizio osservata nella sua ossessione di piacere, assillo che, più avanti, nel momento in cui non sono più gli occhi degli altri a conferirle lo statuto di esistenza, sfocia nell’odio verso se stessa, intelligentemente reso visibile nello scontro tra matrice e creatura, fino ad arrivare al desiderio di soppressione di (una parte di) sé.



Il simbolismo portato avanti dalla regista francese assume vitalità e forza soprattutto grazie alla presenza di Demi Moore, attrice più che sessantenne al suo primo film indipendente, che porta sulle spalle una carriera holliwoodiana tutta costruita (e minata) dal suo aspetto sensuale e incredibilmente giovanile. Nessun’altra meglio di lei avrebbe potuto imprimere nell’immaginario il profilo di una donna dello spettacolo di mezza età chiamata a fare i conti col tempo che passa. 

Meno riuscito il finale del film, un vero e proprio capitolo tre, che presenta chiari rimandi alle mostruosità di Lynch e Cronenberg, senza tuttavia che l’atmosfera ne avesse preparato l’arrivo. 


Voto: 3,5/5


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